venerdì, 05 settembre 2025
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La “scelta religiosa” e la rilevanza dei cattolici

Nel proprio intervento al Meeting di Rimini, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è scivolata su una buccia di banana. Ma nei giorni successivi si è sviluppato un dibattito ampio e interessante, che vale la pena di proseguire

Nel proprio intervento al Meeting di Rimini di qualche giorno fa, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è scivolata su una buccia di banana. Evidentemente mal consigliata, ha cercato di raccogliere la benevolenza del popolo di Comunione e liberazione con queste parole: “Voi, che siete rimasti fedeli al carisma del vostro fondatore, non avete mai disprezzato la politica. Anzi. Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre «sporcati le mani». Declinando nella realtà quella «scelta religiosa» alla quale, mezzo secolo fa, altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che san Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico”.

Il richiamo polemico e quasi sarcastico alla “scelta religiosa” era, evidentemente, rivolto all’Azione cattolica: associazione che fin dalla riforma dei propri Statuti, dopo il Concilio Vaticano II, indicò proprio nella scelta religiosa lo stile del proprio impegno formativo. Una caratteristica, questa, che per qualche periodo ha creato contrapposizione tra l’Ac e altri movimenti ecclesiali, più propensi a un intervento diretto nella politica, nella società e nell’economia.

A mettere in riga la Presidente del Consiglio hanno pensato molti esponenti della storia associativa dell’Ac con interventi, anche piuttosto ruvidi, sui social e sui quotidiani. Tra questi, vale la pena di menzionare Rosy Bindi che, in un articolo apparso su Avvenire, e poi condiviso anche dai canali ufficiali dell’Ac, ha ricordato come la scelta religiosa dell’Azione cattolica non abbia in alcun modo significato l’abdicazione rispetto all’impegno sociale e politico. Piuttosto, con la scelta religiosa, l’Ac ha scelto di liberarsi da ogni collateralismo politico, e ha investito sulla carità formativa. Insomma, la verità è che mettendo il Vangelo al centro della formazione, l’Ac si è sforzata di preparare tanti laici cristiani ad assumere in proprio, con responsabilità, secondo la propria coscienza e senza coinvolgere la Chiesa in quanto tale, un impegno personale anche in ambito politico: cosa che è avvenuta e avviene anche ora, con centinaia di politici e amministratori locali che militano nei vari partiti e schieramenti. Del resto, come efficacemente ha insegnato papa Francesco: “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (AL, 37)

La scelta religiosa, dunque, non è stata affatto un rinchiudersi in sacrestia, ma una precisa volontà di mettere al centro la formazione cristiana della persona nella propria libera e responsabile coscienza. In questo modo, si è lasciata libera anche la Chiesa di fronte alla politica e soprattutto ai partiti, dato che, grazie alla scelta religiosa, è stato possibile coniugare, nel legittimo pluralismo delle appartenenze partitiche, la responsabilità personale dei laici nel proprio impegno politico e la libertà dell’associazione e, in generale, della Chiesa di annunciare il Vangelo anche nella discussione pubblica.

Archiviata la polemica estiva sulle contrapposizioni (peraltro da tempo in gran parte sopite) tra le varie articolazioni ecclesiali del mondo cattolico, è forse più interessante seguire una traccia più politica della discussione: nei giorni successivi, si sono sviluppate, infatti, riflessioni interessanti sul ruolo e la rilevanza che i cattolici hanno oggi nei vari schieramenti politici.

È un tema molto significativo, perché se è vero che la scelta religiosa delle associazioni ecclesiali è stata feconda ed è tuttora necessaria per radicare, anche di fronte a nuovi estremismi, la consapevolezza che vi è una chiara distinzione dei piani tra la fede e la politica, e che non è lecito usare il potere per l’evangelizzazione (né, ovviamente, è lecito il contrario), nondimeno di fronte a uno scenario politico completamente mutato rispetto a quello dell’immediato post-Concilio, in cui vi sono credenti che legittimamente militano in diversi partiti e schieramenti politici, la questione della rilevanza del messaggio cristiano nella vita pubblica e nelle scelte della politica è di stretta attualità.

Benché sia chiaro che le scelte politiche sono responsabilità dei singoli cristiani, e che nessuno, come insegna il Concilio, “ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa”, c’è da chiedersi: esiste lo spazio per una voce della comunità cristiana, in quanto tale, nella discussione pubblica? Su quali temi è utile che questa presenza sia visibile? E in che termini, con quale autonomia e con quale libertà di manovra i cristiani impegnati in politica possono farsi portatori di questa voce?

Insomma, sembra che non si tratti solo di approfondire e conoscere la Dottrina sociale della Chiesa, ma anche di comprendere come la scelta personale di coloro che si impegnano in politica da cristiani possa essere (anche) espressione di comunità cristiane, che sui temi sociali hanno qualche cosa da dire e criteri di giudizio da offrire.

A ben riflettere, è stato proprio questo il focus della settimana sociale dei cattolici in Italia che si è svolta a Trieste, in cui si è invocato uno spazio di nuova partecipazione delle comunità nella vita politica del Paese. È un cammino difficile - perché quello della politica è sempre per la Chiesa un terreno minato -, ma che non può non essere affrontato, pena il rischio dell’irrilevanza, sul piano pubblico, del messaggio evangelico.

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