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Gesù Cristo re dell’universo: sulla croce, salvati dalla morte

Nella XXXIV del Tempo ordinario la riflessione sul Vangelo di un gruppo di detenuti

Con questo commento a più mani si conclude, dopo tre anni, il mio impegno al commento dei Vangeli domenicali. Ringrazio chi, in redazione, ha accolto questi contributi: un lavoro che è servito senz’altro a me, nell’approfondire l’ascolto della Parola del Vangelo, nella storia e nella vita. Ringrazio coloro che hanno condiviso con me, in varie occasioni, il loro ascolto della Parola. Ringrazio chi, con perseveranza, ha riletto le mie bozze. Ringrazio Dio, per il dono della sua Parola viva, condivisa con chi si è lasciato stimolare all’ascolto da queste righe. (don Bruno Baratto)

Un grande grazie a don Bruno e alle persone che ha saputo coinvolgere. (La redazione)

Per il commento a Lc 23,35-43, che conclude l’anno liturgico con la solennità di Gesù Cristo re dell’universo, ho avuto il prezioso contributo di riflessione da un gruppo di detenuti del carcere di Treviso, che da tempo si ritrovano assieme alla Cappellania del carcere e alcuni volontari ad ascoltare e riflettere sui Vangeli della liturgia. Mi limito a qualche linea di commento per cogliere il senso del brano, e lascio grato lo spazio alle loro considerazioni, ben più “competenti” sulla questione che in questo testo si pone.

Un volto di misericordia

Il racconto della morte di Gesù, presentato dall’evangelista, mette in luce ancora una volta il volto di un Dio di misericordia. Nel testo si narra l’ultimo incontro di Gesù: sulla croce, con due briganti. Il primo dei due «lo insulta», o, forse meglio, gli lancia un grido disperato: «Salva te stesso e noi!». Ma l’altro osa una preghiera che fin dall’inizio appare sorprendente, perché unica nei vangeli: è una preghiera “nuda”, che si appella al solo nome: “Gesù - Dio-salva - ricordati di me nel tuo Regno!”. Un “ricordarsi” che si basa sulla fedeltà del Dio dell’Alleanza (Lc 1,72). È preghiera che apre a una speranza senza limiti, sconsiderata; si fonda sull’attesa della risurrezione ultima, promessa alla fine dei tempi; è senza condizioni; non ha nulla a cui appigliarsi, se non la condivisione della medesima sorte di condannati...

Un “oggi” che salva

Gesù ancora una volta non si smentisce: supera la stessa richiesta, apre a un «oggi» imprevisto di salvezza. Non alla fine dei tempi, ma già oggi, già qui «con me sarai nel paradiso». Essere nella pienezza della vita promessa da Dio da ora in poi si compie nell’«essere con Gesù». Il brigante pentito ha accolto l’incontro con Gesù che salva, è ospitato fin da subito da lui e in lui, fin da qui, e oltre ogni morte, nella sua Pasqua. Le riflessioni dei detenuti, che seguiranno dal prossimo paragrafo, danno concretezza a questo incontro e dialogo di Gesù con i due malfattori, proprio perché collocate all’interno di vicende umane di condanna, di pena, di colpa e di speranza inattesa, che “già ora” si vivono in ogni carcere nel mondo.

Un re senza trono

“Abbiamo cominciato a riflettere sul Vangelo di Cristo Re partendo dal legame tra il re Davide, acclamato e incoronato Re dal popolo e chiamato a “pascolare il popolo di Dio”, e il paradosso di Gesù, riconosciuto sulla croce come “Re dei Giudei”, non come titolo d’onore ma per derisione, condanna e marchio d’infamia. Gesù viene giudicato e condannato dal Potere e allo stesso tempo umiliato e deriso da chi un tempo lo seguiva e lo acclamava. Un re senza trono, che si lascia ferire, crocifisso.
Intravedere un senso. Accanto a lui, due altri condannati. Uno lo insulta ed esprime la propria rabbia, amarezza, sfiducia. L’altro, che dal profondo della propria sofferenza, lo riconosce e dice solo: “Ricordati di me.” Due modi di stare davanti al dolore, due modi di attraversare la stessa pena. Noi, con la nostra esperienza e la nostra realtà ci siamo riconosciuti in queste voci. Ognuno nel suo percorso ha provato quanto il Vangelo ci racconta: “C’è chi non riesce ad accettare, chi si ribella, chi si chiude, chi si dispera. Ma anche qui capita che sia possibile cominciare a intravedere un senso, a ritrovare fiducia, a capire che la fede non è un premio per chi è “a posto”, ma una possibilità di rinascita proprio quando tutto sembra perduto”.

Lo sconcerto del perdono

Gesù, sulla croce, pronuncia parole che nessuno si aspetta: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Quelle parole ci hanno toccato. Perché qui dentro, spesso, il perdono è la cosa più difficile da dare e da ricevere. C’è chi si sente giudicato due volte: dal tribunale e dalla gente. C’è chi ha perso amici, affetti, fiducia. C’è chi sente che non sarà mai più creduto. Eppure, proprio nel luogo del giudizio, Gesù parla di perdono. Non lo chiede per sé, ma per gli altri - anche per chi lo ha ferito. È un gesto di libertà, è liberante per vittime e colpevoli. Non toglie la croce, ma cambia lo sguardo su di essa.

Riconoscere le fragilità, riconoscere la verità dell’amore. Abbiamo capito che quel “popolo che stava a vedere” siamo anche noi: quando restiamo fermi davanti all’ingiustizia, quando, per paura o convenienza, non prendiamo posizione, quando giudichiamo partendo da stereotipi e senza conoscere.

Ma possiamo anche essere il “buon ladrone”, quello che alza lo sguardo e dice: “Ricordati di me”. In quel momento, lui ha solo riconosciuto la verità. E Gesù gli risponde: “Oggi sarai con me in paradiso”. La fede e la svolta nella nostra vita spesso partono proprio dal riconoscere la propria fragilità e nel non smettere di credere che la vita può ricominciare. Anche nel carcere, anche nel silenzio, anche dentro le ferite. In fondo questo è il contatto tra questa realtà e il Regno di Cristo. C’è chi ha detto: “Qui i crocifissi siamo noi”. Ed è vero. Ma se Lui ha perdonato, allora anche qui, soprattutto qui, in mezzo alla nostra fragilità, se lo si sa riconoscere viviamo un frammento di quella libertà di cui si parlava in precedenza”.

Concludo con queste “domande aperte” dai detenuti - da sentire nostre, per proseguire il cammino: Chi sono oggi “i crocifissi”? In che modo noi ci riconosciamo in loro? Come si può “venirne fuori” - dentro la condanna - senza perdere la dignità? Perché quando eravamo fuori non ci interessava di chi stava dentro? Perché le cose devono toccarci personalmente per cambiare lo sguardo? Cosa rimarrà davvero di quello che stiamo vivendo qui dentro, quando usciremo? Cosa rischiamo di dimenticare? Cosa significa, oggi, “fare del bene senza aspettarsi nulla”? E come riconoscere i piccoli miracoli quotidiani che spesso non vediamo?

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