mercoledì, 16 luglio 2025
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IV domenica di Pasqua: Il pastore, il suo gregge, noi credenti

L’ascolto della voce di Gesù e la sua conoscenza generano relazioni di comunione

Due immagini, che mettono radici nella grande tradizione di Israele, ci vengono proposte in questa domenica e nella prossima: il pastore e la vite. Entrambe hanno relazione con una vita che si scopre amata e custodita, fino al punto da essere condotta alla novità assoluta della vita di Pasqua, la stessa del Crocifisso Risorto.

Il pastore autentico

Il pastore che ci viene presentato è “il pastore autentico”, quello veramente “buono” e “bello” perché ha a cuore la vita delle sue pecore. Chi è pagato per sorvegliare le pecore non ha con loro un legame tale da fargli affrontare il rischio della morte pur di difenderle: non sono “sue”. Nel caso di Gesù, invece, la relazione quotidiana conduce a un “conoscere” in profondità, fino a “conoscerne il nome”. E tale relazione si allarga ad “altre pecore”, altrettanto “sue”, che lo riconosceranno come pastore fino a comporre “un solo gregge”, l’intera umanità. Tutto ciò nasce dalla relazione fondamentale di Gesù con il Padre, tanto profonda da generare in lui sorgente di vita capace di superare perfino la morte. Ed è Gesù che sceglie di mettere la sua vita completamente a servizio del sogno d’amore che condivide con il Padre in quanto Figlio amato: il sogno di vivere quell’amore quella vita con ogni uomo e donna, con tutta l’umanità. A partire da tale contesto, il brano sviluppa tre temi: chi è Gesù, chi è il suo gregge, chi è il credente.

Gesù, il pastore che chiama

Gesù è presentato come colui che ha cura di ogni “pecora” al punto da donare se stesso affinché ogni uomo e donna possa “ascoltare la sua voce” ed entrare a far parte del “suo gregge”, per vivere la sovrabbondanza della sua stessa vita. E’ questo il motivo per cui è il “pastore autentico”, e dalla “qualità del pastore” dipende la sorte e la “qualità di vita” del gregge. La chiamata è per nome, per ciascuno e ciascuna (Gv 10,3): inizierà con Maria di Magdala, nel giardino della creazione nuova (Gv 20,16) riconoscendo che “i suoi” ormai fanno parte della sua famiglia, quella che lui condivide con il Padre (Gv 20,17), e la invierà ad annunciare questa chiamata a tutti i discepoli (Gv 20,17-18).

Il gregge che ascolta

Il “gregge” è l’insieme di coloro che riconoscono in Gesù il pastore “autentico”, colui che li guida ai pascoli della vita piena. Sono coloro che “ascoltano” da lui il proprio nome, ovvero che lasciano sia lui a svelare loro chi sono davvero: figli immensamente amati dal Padre fin nella profondità delle proprie mortali fragilità. Lo ascoltano insieme, si lasciano condurre insieme: diventano così Chiesa, ovvero comunità di chiamati, seme che germinerà nuova umanità, capace di relazioni di fiducia e di gratuità che allargheranno sempre più il gregge alle dimensioni del mondo intero. Un gregge che diventa tale per iniziativa di Gesù: è lui che chiama, è lui che dona loro la vita nuova, è lui che rende possibile raggiungere ogni uomo e donna, l’intera umanità.

Essere credenti, in relazione con Gesù nella Chiesa

Il credente, la credente, innanzitutto è quindi colui o colei che “ascolta” la voce di Gesù, e che trova nel suo “gregge” una possibilità di essere ciò che è, non individuo isolato e solitario, ma persona in relazione. Perché è la relazione con Gesù, la “conoscenza” di lui, a generare relazioni di comunione. Questa conoscenza è man mano sempre più reciproca, fino al punto da entrare in profondità nella relazione da cui scaturisce la vita stessa di Gesù, fino al punto da poter investire in fiducia e gratuità nelle relazioni all’interno della comunità. Fino a poter generare relazioni di vita con tutti coloro che incontriamo, fino a poter a nostra volta “donare vita”.

Credenti, ovvero capaci di relazione

Tante belle e buone parole... potranno diventare anche “autentiche”, cioè generative di vita sempre più capace di condivisione, di dono sempre più gratuito, sempre più affidabile?

Forse dovremo ritrovare almeno due condizioni. La prima, continuamente ritornare al rapporto con il Crocifisso Risorto, nell’ascolto della sua Parola che ci viene incontro nelle Scritture e nella storia quotidiana. Acconsentire che sia tale Parola a svelarci il nostro nome, a dirci chi realmente siamo: persone che permettono a lui di far emergere il meglio di noi, fin dentro le nostre fragilità e i nostri limiti. Anche se questo ci chiama a uscire dalle nostre “zone di conforto”, nei pascoli ampi (e rischiosi) del mondo, dove lui sempre ci precede (Gv 10,4.9).

La seconda condizione: non farlo da soli, ma insieme a tanti altri fratelli e sorelle, anch’essi anch’esse chiamati da lui, e già solo per questo degni di intessere relazioni con noi.

Pure questo chiede di “uscire” da ovili precostituiti, da comunità talvolta asfittiche, per incontrare “altre pecore” di “altri recinti”. Non come fuga da coloro con cui stiamo, ma piuttosto apertura a rapporti nuovi e nuovamente vitali che generino rinnovamento anche in quelli che viviamo già.

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