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XV Domenica del Tempo ordinario: Che cosa significa “farci prossimi”?

Lasciamoci interrogare seriamente da questa parabola, come singoli e come comunità cristiana

Ama il Signore Dio tuo con tutto te stesso e il prossimo tuo come te stesso: proposta provocante che va alla radice del nostro essere cristiani. Già presente nel Vangelo secondo Matteo e secondo Marco, qui però si va oltre. La domanda dell’esperto della Torah («E chi è il mio prossimo?») sottintendeva: qual è il confine oltre il quale l’altro non è più mio prossimo? A quel tempo il prossimo era colui che apparteneva al popolo di Israele. E anche oggi, per noi: se pur devo riconoscere un obbligo di prendermi cura, al massimo sarà per “uno dei miei”, in un circolo sempre più ristretto, a seconda di come l’altro o l’altra si è comportato con me.

Il nemico che si fa “prossimo”

Gesù risponde - a quel maestro della Legge, e a noi - con una parabola ben nota. Di quelli che passano accanto e vedono colui che è tra la vita e la morte in mezzo alla strada, solo uno si lascia “mordere le viscere” e si ferma, e si mette in azione per soccorrerlo. Ed è uno straniero. Peggio, è un eretico religioso e culturale: al centro della Palestina, tra Galilea e Giudea, i Samaritani avevano una radice religiosa ed etnica comune con il popolo di Israele, ma con un loro tempio e un loro modo di intendere l’Alleanza, e il rapporto con gli altri era di reciproca ostilità. Il samaritano è un nemico. Su quella strada in piena Giudea per lui è quasi certo che il disgraziato sia un suo nemico, non un “prossimo”; al contrario, per il sacerdote e il levita sarebbe stato quasi certamente “prossimo”, cioè parte del proprio popolo.

La domanda finale di Gesù spiazza l’attesa iniziale, non si tratta più di decidere il confine tra amici e nemici, ma di “farsi prossimo”, cioè di “farsi attivamente vicino” a chi imprevedibilmente la vita mi mette davanti e che urgentemente ha bisogno di me. Al di là di ogni tentativo di metter limite al mio obbligo, veniamo ricollocati da Gesù in una prospettiva nella quale siamo chiamati dalle vicende e dagli incontri della vita ad “agire prossimità” verso chi ha bisogno di noi per vivere. Oltre ogni paura per la nostra incolumità, identità... anzi, riscoprendo che la nostra identità umana si genera proprio quando decidiamo di com-patire, come possiamo, il patimento dell’altro e dell’altra che incontriamo.

L’altro che mi salva la vita

Ma questo insegnamento parte dal punto di vista del samaritano. E se invece, come suggeriva una grande psicanalista, Françoise Dolto, ci mettessimo dal punto di vista di chi era «mezzo morto sulla strada»? Ascoltando la parabola dal punto di vista di chi è soccorso, “Cristo chiede al ferito di amare il samaritano salvatore come se stesso. È al salvato che Gesù insegna l’amore: per tutta la vita costui amerà colui che lo ha salvato, è lui il suo prossimo, che gli si è fatto vicino nel momento del grande bisogno. Anche se non sa neppure chi è. Siamo chiamati a riconoscere il nostro debito verso chi ci ha sostenuto nel momento in cui da soli non avremmo potuto in alcun modo continuare la strada. E il nostro debito con colui che ci ha salvato possiamo saldarlo solo agendo allo stesso modo con altri che incontriamo mezzi morti sul nostro cammino. È amore disinteressato, è dono, se ne ricorderà colui che l’ha ricevuto”.

Il prossimo, da questo punto di vista, “è chi ci è messo sulla strada quando ne avevamo bisogno, chi ci ha aiutato senza richieste e ha, poi, proseguito senza nulla in cambio. A differenza del sacerdote e del levita, il samaritano è colui si fa vicino perché patisce-con, cioè si riconosce nel ferito: «anch’io potrei essere al suo posto», e agisce di conseguenza. È la luce di un amore che ci ha salvati e che ci mette in grado di agire allo stesso modo con altri senza diventare «professionisti dell’aiuto»”.

Gesù, samaritano sulle nostre strade

Che cosa ci dice allora la parabola? Ognuno lo scoprirà confrontandosi con chi incontrerà bisognoso sulla propria strada. Ma anche riconoscendo chi sulla stessa strada avrà avuto cura di lui. Nella lettura dei Padri della Chiesa, il samaritano è figura di Gesù, che viene a salvare ogni uomo e donna mezzi morti sulla strada della vita, e quindi anche ciascuno di noi. La parabola vuole coinvolgerci in un’esperienza capace di convertire il nostro sguardo, il nostro cuore, le nostre mani, per riscoprire di essere amati proprio nel momento del bisogno, e che quest’esperienza diventa fonte di ogni nostra capacità di compatire e a nostra volta amare chi nella vita incontriamo in altrettanta necessità, riconoscendoci in lui, in lei, bisognoso d’aiuto come lo sono stato io.

Che farcene di questa parabola?

In un momento storico in cui sempre più cresce l’abitudine di “fratturare” il mondo tra “amici” e “nemici”; in cui questa stessa distinzione è precaria: chi oggi considero amico, se stasera fa qualcosa che non mi garba, può subito diventar nemico; in un tempo in cui tra me e il mio nemico vi può essere solo ostilità aperta o tregua armata... che ne facciamo di questa parabola? Oggi, è chiamata ancor più urgente a riconoscere la necessità vitale di entrare in relazione con l’altro con l’altra riconoscendoci in lei, in lui. Come ci ricorda papa Leone, è continuare a scoprire che proprio l’incontro esigente con l’altro: Dio - il prossimo, è ciò che ci rende umani. E quindi è necessario al nostro essere cristiani.

Abbiamo ancora il coraggio, come comunità ecclesiale, di lasciarci interrogare seriamente da questa parabola? Di comprendere che dai comportamenti che metteremo in atto di fronte a chi è nel bisogno dipende non soltanto la vita dell’altro e dell’altra, ma anche la mia stessa vita, la mia stessa umanità?

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