Penso che molti, come me, siano rimasti inizialmente un po’ sorpresi dalla elezione al pontificato del...
Iran, Usa e Israele. Ore decisive sul conflitto

Un ultimatum di due settimane “offerto” dalla Casa Bianca a Teheran, mentre il ministro degli esteri iraniano a Ginevra incontrava la Kallas, con gli omologhi di Francia, Germania e Uk in tema di de-escalation con Israele. Neanche 48 ore ed ecco l’ennesimo colpo di scena: il bombardamento Usa su tre siti nucleari, ancora con buona pace del diritto internazionale. Israele sembra sia riuscito a trascinare in guerra un Trump piegato dall’agenda neocon nonostante i diversi orientamenti della componente neo-isolazionistica della sua amministrazione. Scarso l’effetto delle polemiche condotte sui social dalla base elettorale Maga, con una pioggia di meme della “provetta irakena” di Colin Powell del 2003 in tandem con i post elettorali del Tycoon sull’irresponsabilità dei predecessori in Medioriente. D’altronde, la vicenda del nucleare iraniano è densa di paradossi logici, con un accordo ricusato da Trump nel primo mandato, appena ieri riesumato con un nuovo negoziato e testé sabotato dall’attacco israeliano del 13 giugno.
Il conseguente ritiro dal tavolo ha trasformato Teheran in un “interlocutore canaglia”, mentre sono stati i raid israeliani, anziché le ispezioni dell’Aiea, a dare il decisivo riscontro all’allarme con cui dal 1996 Netanyahu dà per imminente la bomba iraniana, capace di raggiungere persino l’Europa, oltre ovviamente a Israele – il cui arsenale nucleare resta non censito, mancando l’adesione ai trattati anti-proliferazione.Il nuovo coup de théâtre trumpiano conferma la generale china piratesca che affligge le relazioni internazionali. Il bombardamento integra le trattative facendo strame della diplomazia e del diritto, laddove da decenni le guerre non vengono neanche più dichiarate: basta chiamarle in altro modo (le guerre le fanno “gli altri”) per legittimare l’interventismo civilizzatore o umanitario. I patti stessi sono sempre più alla mercé dell’arbitrio estemporaneo. Ed è moda pluridecennale anche presso gli esecutivi liberaldemocratici decidere in ambito bellico aggirando i parlamenti e le afferenti costituzioni.
Ieri Trump sembrerebbe avere scelto i costi da affrontare pur di celare la debolezza nel dettare limiti a un gregario (ma quanto lo è Israele?) che, non sapendo più quale orizzonte strategico assumere per trovare qualcosa che somigli a una vittoria, opta per un bersaglio supplementare a Gaza. Il nucleare (civile o militare che sia) iraniano è parso ancora profittevole. A meno che l’obiettivo non sia un cambio di regime da remoto. Che però, oltre a non essere in vista, vorrebbe dire balcanizzare l’Iran, scoperchiando l’ennesimo vaso di Pandora, reiterando l’“effetto Isis”.
A complicare la scena la smentita all’invulnerabilità aerea: le risposte missilistiche iraniane, nient’affatto indolori, hanno persino provocato alterchi in seno al governo, visto che persino Ben Gvir, infervorato fautore dell’annessione di Gaza e Cisgiordania nello Stato ebraico, si è scagliato con chi avrebbe malamente protetto il Paese dal fuoco di uno Stato in grado di reagire.
Dopo i bombardamenti americani, si direbbe che la palla sia tra i piedi dell’Iran. Potrebbe rispondere contro alcune basi Usa nell’area, risultandone però una mossa simbolica, che la esporrebbe a rappresaglie insostenibili. Inoltre, aprire un effetto domino nella regione non le assicurerebbe la discesa in campo a sua difesa di una superpotenza, come Russia o Cina. Eppure persino l’inerzia potrebbe non essere risolutiva, se gli Usa ingiungono una incondizionata rinuncia allo sviluppo dell’energia nucleare. Dunque, un vicolo cieco.
Proviamo tuttavia a leggere la vicenda sotto un’altra luce, fornita dalla possibilità che dai siti colpiti sia stato effettivamente evacuato materiale critico nei giorni scorsi, come alcune immagini satellitari parrebbero suggerire.
Ammettendo che gli Usa li abbiano scelti appositamente per questo, potremmo pensare a un gesto dimostrativo, utile a salvare capra e cavoli: accontentare le richieste d’intervento di Israele, permettendo a Netanyahu di dichiararsi soddisfatto, nell’impossibilità di sostenere a oltranza il conflitto. Accontentarlo in questo modo, senza proseguire, permetterebbe alla Casa Bianca di salvare la faccia su vari versanti (anche interni).
Resterebbe aperto il capitolo del nucleare. Al quale però gioverebbe la possibilità che Russia o Cina si facciano garanti del programma iraniano, giacché alla Casa Bianca non basta la rassicurazione del divieto posto dagli ayatollah sull’arma nucleare, che Khomeini prima e Khamenei poi hanno proibito in quanto contraria alle leggi coraniche. Affinché l’ipotesi sia percorribile, oltre al benestare di Washington, servirebbe l’impegno di Tel Aviv a desistere da ulteriori sabotaggi, accettando di chiudere così la partita – ovvero di proseguire da sola nello scambio di fuoco ancora per un po’.
Vero è che a escludere tale sviluppo pare essere intervenuto il Parlamento iraniano, approvando la chiusura dello Stretto di Hormuz, per il quale passa un quinto del traffico mondiale del greggio. Il danno sarebbe sulle prime molto grave a carico delle economie asiatiche, ma l’effetto sui mercati sarebbe di proporzioni vaste e sistemiche, strangolando l’export delle petrolmonarchie e tagliando i rifornimenti anche all’Europa. I rimbalzi non lascerebbero indenni neanche gli Usa, affamati di investimenti esteri e con il dollaro che non è più la valuta-rifugio di un tempo. Eppure manca la parola definiva del Consiglio supremo: che non sia questa la leva iraniana per incanalare la soluzione sopra tratteggiata, esercitando la pressione su tutti gli attori a vario titolo coinvolti? Le prossime ore potranno rivelare la direzione degli sviluppi. Fermo il danno incrementale alla credibilità del cosiddetto “ordine fondato sulle regole” che quest’ultima crisi ha inferto, prestando l’ennesimo precedente all’emulazione di qualsiasi altra condotta arbitraria, in quest’epoca già così prostrata da incertezze e violenza.