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Genocidio di Srebrenica: ferita ancora aperta

Trent’anni fa, la pagina più nera del sanguinoso conflitto che divampò in Bosnia Erzegovina

Trent’anni fa, in questi giorni, l’Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente. Fra l’11 e il 18 luglio 1995, anche per la passività delle Nazioni Unite, venne, infatti, perpetrato il genocidio di Srebrenica, una delle atrocità più sconvolgenti della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995). Il massacro costò la vita a 8.732 persone secondo le cifre ufficiali, mentre secondo altre fonti locali gli scomparsi sarebbero più di 10.700. Altre 20 mila persone furono deportate, soprattutto donne, bambini, anziani.

Il passato che è presente

Srebrenica, città martire della Bosnia situata nella Republika Srpska (Repubblica serba di Bosnia), si trova a poco meno di 800 chilometri del nostro territorio. Suo malgrado, è divenuta il simbolo della guerra fratricida nell’ex Jugoslavia, ma anche del continuo fallimento della comunità internazionale. Distante poco più di 15 chilometri dal fiume Drina e dal confine serbo, quel massacro continua ancora a dividere la Bosnia-Erzegovina, e ad alimentare polemiche e contrapposizioni nella vicina Serbia e nel resto della regione.

Cittadina nata attorno alle sue miniere, ancora in uso, era un centro turistico per cittadini da tutto il Paese, per le sue terme e i suoi boschi. Oggi Srebrenica è una città vuota, con molte ferite aperte, e che non ha ancora risolto l’equilibrio tra la vita e la morte, tra il futuro e il passato. Secondo l’ultimo censimento affidabile, quello del 2013, risiedono in città 15.242 persone, molte delle quali, però, vivono all’estero e mantengono la residenza. Nel 1991, all’epoca dell’ultimo censimento della Jugoslavia prima della guerra, erano 36.666.

Si stima che in tutta la municipalità di Srebrenica vivano, oggi, non più di 5-6 mila persone, delle quali circa 2-3 mila in città: questi sono i risultati delle pulizie etniche di trent’anni fa. E la situazione non è diversa in altre parti della Bosnia Erzegovina.

Quello che sta accadendo a Gaza, in questi ultimi mesi di assedio, ricorda dolorosamente i momenti peggiori delle guerre balcaniche degli anni Novanta. Pur in contesti diversi, e senza tracciare dei semplicistici parallelismi, ci sono dei punti in comune, che ci raccontano come le tragedie di ieri spesso si dimentichino e si replichino in forme peggiori.

Innanzitutto, pensiamo alle argomentazioni usate allora per giustificare l’uso della violenza contro i bosniaci, che vengono ora usate contro i palestinesi di Gaza. Argomentazioni come “sono tutti terroristi”. Lo stesso linguaggio veniva usato contro i bosniaci a quei tempi.

Un’altra somiglianza tra la Bosnia di allora e Gaza di oggi è il terrore inflitto ai civili, fino alla sottomissione.

Luglio 1995

In quei giorni le truppe serbo-bosniache, agli ordini del generale Ratko Mladic, entrarono nella città di Srebrenica e massacrarono la popolazione musulmana. Quando i serbo-bosniaci irruppero in città, oltre 40 mila abitanti fuggirono verso la base dell’Onu di Potocari, a nord del centro urbano. Circa 7 mila persone riuscirono a entrare nell’area della base, presidiata da un centinaio di caschi blu olandesi, che avrebbero dovuto difendere la città, dichiarata dall’Onu zona protetta nel 1993. Gli altri si accamparono fuori.

All’arrivo dei serbo-bosniaci i caschi blu non intervennero, mentre Mladic fece separare gli uomini da donne e bambini, che furono deportati. Gli uomini furono passati per le armi, secondo le testimonianze di sopravvissuti e secondo l’atto di accusa del Tribunale penale internazionale (Tpi) per la ex Jugoslavia, il quale, con una sentenza dell’aprile 2004, ha stabilito per primo che si trattò di genocidio.

I corpi degli uccisi nelle esecuzioni di massa vennero sotterrati in fosse comuni. A migliaia, fuggirono nelle campagne circostanti, le milizie serbo-bosniache aprirono una gigantesca caccia all’uomo e ne catturarono migliaia: in gruppi di 200-300 furono messi in fila e fucilati.

L’orrore di queste uccisioni di massa scossero le coscienze a livello planetario, specie quelle dei Paesi europei, dopo che, per oltre tre anni, l’Europa aveva guardato distaccata e divisa la mattanza alle porte di casa. Il massacro di Srebrenica è stato l’apice della pulizia etnica e del genocidio contro i musulmani di Bosnia, andato avanti per anni.

Un rigurgito di coscienza

In pochi mesi Washington riuscì a portare al tavolo di Dayton (21 novembre) musulmani, croati e serbi, ma il risultato si limitò a sancire la divisione etnica, creando un Paese diviso in due entità, la Repubblica Srpska, che comprende anche Srebrenica, e la Federazione croato-musulmana, che comprende Sarajevo e Mostar. Più di 100 mila furono i morti, e più di un milione le persone che fuggirono dalla Bosnia, durante il conflitto. Di queste, solo alcune sono rientrate, mentre le montagne e i boschi continuano a essere disseminate di mine antiuomo. Per anni, i sopravvissuti hanno cercato i resti dei propri cari nelle fosse comuni.

Nell’ottobre del 1999 l’allora segretario dell’Onu, Kofi Annan, ammise le responsabilità politica e morale delle Nazioni Unite: “La tragedia di Srebrenica peserà sempre sulla nostra storia”. Parole riprese, oggi, dal segretario attuale, António Guterres.

Le condanne per i fatti di Srebrenica dimostrano quanto sia importante individuare i colpevoli delle atrocità commesse in tempo di guerra, specie nel momento in cui si sta cercando di delegittimare il ruolo della Corte penale internazionale.

Questioni aperte

Srebrenica è, trent’anni dopo, al centro di tre questioni non risolte: quella della comunità locale, divisa tra passato e presente; quella della comunità nazionale, radicata nel cuore delle divisioni tra la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina; e quella internazionale, caratterizzata da un sistema creato dopo la guerra attraverso gli accordi di Dayton, che non funziona bene e da un concetto di giustizia internazionale che genera molti dubbi.

Ogni anno, l’11 luglio, i parenti delle vittime tornano a commemorare i loro cari morti al cimitero memoriale di Potocari. Una data che anche l’Europa pare aver dimenticato, pensando al mancato processo di integrazione della regione e a quanto sta succedendo in Ucraina. Srebrenica è l’esempio di quali possono essere le conseguenze del nazionalismo estremista. La memoria delle atrocità passate è fondamentale per non ripetere analoghi errori in futuro.

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