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La battaglia di Shila: dal Bangladesh al sit in davanti a Benetton

E' una delle persone sopravvissute all’immane tragedia del Rana Plaza, accaduta un anno fa. 1.138 persone morirono e quasi 2.000 rimasero ferite nel crollo dell’edificio di 8 piani che ospitava migliaia e migliaia di operai che lavoravano per pochi dollari a beneficio dei grandi marchi tessili mondiali, tra cui la Benetton Group. Nei giorni scorsi è stata a Treviso.

Shila Begum, 24 anni, vedova che vive a Dacca, in Bangladesh, con una figlia di 10 anni, è una delle persone sopravvissute all’immane tragedia del Rana Plaza, accaduta un anno fa. 1.138 persone morirono e quasi 2.000 rimasero ferite nel crollo dell’edificio di 8 piani che ospitava migliaia e migliaia di operai che lavoravano per pochi dollari a beneficio dei grandi marchi tessili mondiali, tra cui la Benetton Group.
Abbiamo incontrato Shila a Treviso, prima tappa italiana del tour portato avanti nell’ambito della campagna mondiale “Pay up Abiti puliti”. Non a caso, dicono le rappresentanze delle numerose associazioni trevigiane che l’accompagnano, Treviso e piazza Indipendenza, difronte al negozio del marchio Benetton, sono state la prima tappa di un lungo percorso in cui si sta chiedendo ai marchi tessili che ancora non hanno contribuito, di effettuare immediatamente i versamenti necessari a raggiungere i 40 milioni di dollari previsti dal Rana Plaza Donor’s Trust, fondo garantito dalla Organizzazione mondiale del lavoro.
Shila Begum ora ha un braccio rotto e ha perso l’utero perché durante il crollo le è caduta una trave addosso. “Tante voci - dice - erano presenti in piazza per richiedere coralmente che Benetton Group onori gli accordi sottoscritti dopo la tragedia, ed io sono felice di essere la portavoce di tante donne che sono cadute nell’inferno dopo il crollo”. Continua con voce flebile ma senza fermarsi o fermare il traduttore, raccontando come è avvenuta la tragedia nell’aprile del 2013. Avevano già visto le crepe nel muro il giorno prima, ma i “padroni” avevano avvisato gli operai che se non fossero entrati nel luogo di lavoro avrebbero tolto il salario del mese (54 euro più o meno). Il giorno successivo lei decise di entrare e pochi minuti dopo la macchina da cucire elettrica si spense; uno scossone, il pavimento sprofondò ed il soffitto venne giù. Shila rimase incastrata tra le macerie, mentre tanta gente urlava e moriva attorno a lei.
Ora Shila vuole solo portare avanti la scuola della figlia di 10 anni e farla vivere in condizioni diverse, ma questo è il sogno di tanti che si trovano nelle sue stesse condizioni. In Bangladesh, racconta la sindacalista che la accompagna, si lavora per i marchi italiani, olandesi, francesi, inglesi, ed americani, 7 giorni su 7, 11 ore al giorno, anche se dopo la tragedia si è realizzata a livello nazionale qualche legge diversa sulla sicurezza. Ma rimangono 5 mila fabbriche tessili a rischio, con 3 milioni e mezzo di lavoratori di cui l’ 85% sono donne. Lavorano in piccole stanze, in dieci-undici, chiuse a chiave.
Comunque dopo la tragedia del Rana Plaza, seppur con difficoltà, una piccola rivoluzione è accaduta: si è formato un tavolo con i sindacati mondiali, il governo del Bangladesh, i sindacati nazionali, l’Organizzazione mondiale del lavoro e i rappresentanti dei marchi tessili. Attorno ad un tavolo di trattativa, per la prima volta si è firmato a dicembre 2013 un accordo di risarcimento ai lavoratori rimasti inabili, o famiglie rimaste senza reddito per morte di familiari. E’ un accordo a cui la Benetton Group partecipa nei primi tre mesi, ritirandosi subito dopo, “perché - mi dice l’amico sindacalista del Bangladesh - forse capisce che si trova di fronte a richieste negoziate, che per la prima volta i lavoratori si rendono titolari di diritti e non di penose carità”. Ora l’accordo sul fondo è entrato a pieno regime dal febbraio 2014 e si chiede a tutte le aziende che lavoravano al Rana Plaza, ma anche a tutte le aziende tessili che investono nel paese, di contribuire al fondo. L’Italia e la  Benetton Group sono i fanalini di coda.

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