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L’odio entra in politica: “Incapaci di distinguere”


la pessima abitudine è in aumento, e la cosa è, decisamente, inquietante. Va di moda l’odio, in politica. Sempre più questa terribile parola, che fa a pugni con qualsiasi teoria e pratica di convivenza democratica, viene usata con disinvoltura, o “sbattuta”, come accusa, addosso agli altri, anche da importanti figure istituzionali. La tendenza è stata ancora più evidente nelle ultime settimane, dopo l’uccisione, negli Stati Uniti, dell’attivista Charlie Kirk. A lanciare l’allarme è il prof. Giovanni Grandi, professore di Filosofia morale all’Università di Trieste, tra i componenti del Comitascientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia. In passato, ha lavorato attivamente all’elaborazione del Manifesto della comunicazione non ostile, nato proprio a Trieste.
Cosa sta succedendo, professore?
Stiamo assistendo, negli ultimi tempi, al crescere di un linguaggio perentorio, che spesso sfocia nella delegittimazione dell’interlocutore quando non nell’offesa, senza la cura nel mantenere la discussione sul piano delle idee e delle scelte. Colpisce proprio questo ricorrere ai processi alle intenzioni, trasmettendo l’idea che la sfera pubblica sia animata, prevalentemente, da attori con secondi fini. L’effetto di tutto questo è, da un lato, la polarizzazione delle parti sociali e, dall’altro, la progressiva erosione della fiducia in chi si occupa della cosa pubblica. Il manifesto della Comunicazione non ostile rimane un punto di riferimento per riflettere su queste modalità di interazione, vale la pena di promuoverlo e di utilizzarlo anche come spunto di revisione e discussione.
Con il caso Kirk si è assistito a un caso sparti-acque?
Non saprei dire se sia uno sparti-acque, sicuramente un accentuarsi di questa tendenza. Nel dibattito sono entrate legittime questioni ideali ma, appunto, impiegate nella direzione di una polarizzazione sempre più forte. Oggi, in politica, tutto rischia di essere o bianco o nero, si perde la possibilità di articolare posizioni diverse, più sfumate. Ma l’eccessiva semplificazione nuoce alla democrazia.
Si dice che sia colpa dei social network, è d’accordo?
Fino a un certo punto. Questi strumenti danno a ciascuno modo di esprimersi e non vanno certo demonizzati. Piuttosto occorre capire che si sono aperte nuove piazze, nuovi contesti di discussione, la cui qualità dipende da tutti coloro che vi contribuiscono. Certamente è necessaria una nuova cultura comunicativa e una diffusa formazione.
E l’Intelligenza artificiale rappresenta un nuovo rischio?
Anche in questo caso, occorre distinguere. Si tratta di uno strumento interessante, sotto molti aspetti. Ma, anche nel dibattito democratico, è necessario dare spazio alle relazioni fisiche, in presenza, senza affidare tutto a un contesto in remoto.Il virtuale è reale, ma proprio la mediazione di strumenti digitali lo rende più facilmente falsificabile.
La gente sembra allontanarsi, da una politica sempre più polarizzata. Ma l’elettorato, in tutto il mondo, sembra premiare, poi, chi “polarizza”. Un paradosso?
È vero che, nella scena mediatica, vince chi urla di più. Ma non sarei così categorico. Per esempio, dalla gente sale una grande domanda di pace, che è autentica, ma trova interpretazioni forzate. Continuamente, poi, vengono chiamate in causa, non a caso, persone che incarnano la propensione al dialogo.
Come cattolici, siamo interpellati?
Il grande tema di fondo, in particolare dopo la Settimana sociale di Trieste, è come trasformare le molte intuizioni in prassi ordinaria. Il cammino sinodale, in fondo, è un aiuto decisivo a questa ricomposizione. Non bisogna avere fretta, i processi richiedono tempo, e occorre la pazienza di un lavoro costante e disteso.