Il Governo Netanyahu
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 La festa di tutti i Santi e il ricordo dei nostri morti ci invitano a porci di fronte alla morte con gioia e con speranza. È un’affermazione che avvertiamo confliggere con il nostro sentire: sono due atteggiamenti che decisamente non associamo a tale realtà. Eppure, è questo che ci consegna la “buona notizia” (=evangelo) che Gesù ci ha annunciato con la sua vita e le sue parole. Proprio lui, che ha vissuto tutta la sofferenza e la tragedia del morire, e continua a sperimentarla in tutti i crocifissi di oggi, ci fa questo annuncio. I due brani evangelici proposti il 1° e il 2 novembre, Mt 5,1-12 e Gv 6,37-40, ci invitano ad accogliere una Parola di Dio che dà fondamento alla gioia e alla speranza.
La beatitudine che dà gioia
Come annuncio della «buona notizia», nella festa grande in cui avvertiamo la presenza di tutti coloro i quali hanno raggiunto la pienezza di vita della Pasqua, ascoltare il testo delle “beatitudini” ci comunica innanzitutto una verità centrale dell’esperienza cristiana: i santi sono i santi-ficati, cioè coloro che si sono lasciati “fare santi” da Dio, come mi aveva annunciato in seconda media il mio insegnante di religione di allora, don Antonio Trevisiol. È ciò che emerge dall’ossatura essenziale delle “beatitudini”, come le riporta Mt 5: sono beati coloro che il mondo non considera certo felici, riusciti, di successo. Dio, infatti, interviene nella loro vita per condurli a pienezza. Tutte le affermazioni sono completate dal cosiddetto “passivo divino”, che invita a leggere: “Beati i poveri in spirito, perché Dio darà loro il suo Regno”, e così di seguito. Le beatitudini originariamente sono in realtà dichiarazioni che rivelano il volto e l’agire di Dio, il quale si mette attivamente dalla parte di coloro che sono considerati falliti, ultimi, “non riusciti” per renderli “beati”. È dono suo, ben prima che “merito” conseguito per il proprio comportamento. Poi, certo, il dono di vita ricevuto cambia il cuore, e rende capaci di condividerlo, prendendosi cura degli altri come si è sperimentato che lui si è preso cura di noi... Così, ascoltando oggi della sovrabbondanza di vita che Dio dona, fin dentro le situazioni più fragili e senza speranza, intuiamo che i santi sono appunto i santificati, coloro che hanno lasciato fare a Dio nella loro esistenza. Teresa di Lisieux scriveva: “Chi sa come diventerebbe un’anima se lasciasse che Dio agisse come vuole nella sua vita?!”.
Il desiderio di Dio che apre speranza
Anche il brano da Gv 6, proposto per il ricordo di tutti i morti, rinforza tale messaggio: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). La volontà del Padre, che Gesù si impegna a “fare”, è desiderio di salvezza per l’intera umanità, per il mondo l’universo intero. Se l’accogliamo, si fa amore che ci salva la vita, fin dentro la profondità di ogni morte. Ci salva rendendoci continuamente di nuovo capaci di amare.
Una gioia da vivere, una speranza che non delude
Questo può aprire in noi una profonda speranza: la speranza che tutti e tutte (“Tutti, tutti, tutti”, diceva papa Francesco) si lascino in qualche modo, alla fine, raggiungere e trasformare da questo amore così folle da morire per noi, e noi certo non ce lo meritavamo (Rm 5,6-8)! – se pur si possa “meritare” un dono così totale ed estremo -. È entrare nella prospettiva della Pasqua, che è insieme e inscindibilmente morte e risurrezione. Una prospettiva attiva già ora, già qui, nel metterci in grado di attraversare dietro a Gesù ogni nostra morte, personale e collettiva, fino all’ultima morte e all’ultimo varco-oltre. È sapienza ecclesiale, quindi, mettere accanto, uno dopo l’altro, il celebrare i santi e il ricordare i morti. Perché rinforza l’annuncio del sogno del Padre, di poter rendere pienamente compiuta la vita di tutti i suoi figli e figlie: la pienezza di gioia di coloro che con più evidenza intuiamo aver “lasciato fare a lui” incoraggia ognuno e ognuna di noi a sperare per noi e per coloro che continuiamo ad amare, fin oltre la loro (e la nostra) morte.
Fin da oggi, fin da qui
In un tempo in cui la speranza si infragilisce, in cui sembra che la morte si imponga come destino non solo personale, ma anche sempre più collettivo, per popoli interi, e per l’intera umanità, in questo tempo ci viene donata una volta ancora una possibilità di credere a un amore che ci salva. Anche se non nella maniera da noi desiderata: non ci salva “dalla morte”, ma “fin dentro” la morte. Ci rende così capaci di “rimanere vivi” anche dentro le situazioni e i lutti più mortali, capaci di condividere la vita che lui ci dona.
Facciamo festa, quindi, non solo per i santi, ma con i santi, facciamo festa con i nostri morti: tutti loro ci invitano a credere che la loro presenza rimane, presenza d’amore e di cura, accanto e insieme al nostro quotidiano andare.