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Santi Pietro e Paolo apostoli: Festa di fraternità nella diversità

Un ricordo unito, nella memoria ecclesiale, fin dai primi secoli

La festa dei santi apostoli Pietro e Paolo è ricordata a Roma già alla metà del terzo secolo. Fin dalle origini il loro ricordo viene mantenuto unito nella memoria ecclesiale, a rappresentare la Chiesa che nasce dalla testimonianza viva e incarnata degli apostoli, dei primi discepoli di Gesù. Dio, infatti, si affida, nella storia, alla testimonianza di un’esperienza che ha segnato la vita di chi l’ha vissuta, ognuno ognuna nella diversità della propria esistenza. Gesù lo afferma ai suoi (Lc 24,48), lo annuncia a Saulo (Atti 22,15). E’ consapevolezza che l’annuncio del Regno di Dio inaugurato dalla Pasqua di Cristo passa per fragili testimoni umani (Rm 10,14), in una testimonianza resa efficace dall’opera dello Spirito Santo (At 2,1-11; 1Cor 12,3).

Due grandi fragilità

E la fragilità sia di Pietro sia di Paolo è stata grande. Papa Francesco lo ha ricordato in una sua omelia in occasione di questa festa (29 giugno 2019): “Le loro vite non sono state pulite e lineari. Entrambi erano di indole molto religiosa: Pietro discepolo della prima ora (Gv 1,41), Paolo persino «accanito nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14). Ma fecero sbagli enormi: Pietro arrivò a rinnegare il Signore, Paolo a perseguitare la Chiesa di Dio. Tutti e due furono messi a nudo dalle domande di Gesù: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,15); «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Pietro rimase addolorato dalle domande di Gesù, Paolo accecato dalle sue parole. Gesù li chiamò per nome e cambiò la loro vita. E dopo tutte queste avventure si fidò di loro, di due peccatori pentiti... Il Signore non compie prodigi con chi si crede giusto, ma con chi sa di essere bisognoso”.

Due grandi diversità

Sono due persone molto diverse tra loro: Pietro, il pescatore dalla Galilea, impetuoso e appassionato e capace di continua conversione, Paolo, l’ebreo dotto e formato nella Torah, fin intransigente nel mantenere fede all’esperienza che gli ha cambiato la vita. Averne fatto memoria in un’unica festa è stata intuizione grande e feconda: la comunità cristiana ha bisogno di una varietà di doni e delle persone che li incarnano per crescere come corpo vivo capace di credibile testimonianza (1Cor 12,4-30). Ha bisogno di persone che siano capaci anche di entrare in conflitto, e dal conflitto proseguire in più consapevole fraternità (Gal 2,11-14). Ha bisogno, oggi ancora, di riconoscere al suo interno una varietà di doni che facciano crescere la vita comune e il rapporto con la storia. Ha bisogno di chi, come Pietro, sappia riprendere a fidarsi dell’amore del Signore Gesù e della fiducia che lui continuamente rinnova (Gv 21,15-19). Ha bisogno di chi, come Paolo, con lucidità sappia intuire le conseguenze dell’opera di Gesù, della sua morte e risurrezione, per accogliere la creatività dello Spirito Santo che continuamente genera gesti di speranza e di liberazione da tutto ciò che rovina la vita da Dio donata all’umanità intera (Rm 8,1-23).

Un incontro di fraternità

In questo tempo della storia, in cui continua ad esasperarsi la volontà di affermare il proprio potere, fin con la violenza, individuale o istituzionale, in cui continua a prevalere l’interesse proprio sul bene comune di tutti, la festa dei due Apostoli uniti in unica festa nell’abbraccio della fraternità, espresso nel bassorilievo di Ravenna e nelle icone orientali, è proposta tenace di speranza. Non si sono fatti vanto della loro forza: Pietro sa che il suo amore è fragile (Gv 21,17), Paolo sa di non essere forte come vorrebbe (2Cor 12,7-9). Ben diversamente dalla potenza esibita oggi in mille modi come fonte del diritto del più forte, entrambi propongono, invece, l’efficacia della forza di Cristo, forza di un amore capace di attraversare perfino la morte. L’unica forza di vita capace di «manifestarsi pienamente» proprio nella nostra «debolezza», di uomini e donne la cui esile esistenza è sempre esposta alla fine (2Cor 12,9).

Chiesa di oggi, erede di una testimonianza che genera speranza

Come comunità cristiane, celebrare questa festa diventa allora chiamata grande a riconoscerci debitori di diversi percorsi di vita che si sono incrociati grazie all’incontro con il Signore Gesù morto e risorto, e che si sono ritrovati alla fine a Roma, nel rendergli testimonianza con la propria stessa vita. Testimonianza resa dove il potere umano celebrava, invece, la propria potenza e le proprie logiche. Una testimonianza che si fa interprete della storia di sempre, come propone il libro dell’Apocalisse: storia di sopraffazione e di violenza, ma anche storia in cui l’azione di Dio continua a generare speranza e vita (Ap 11,2-12). Anche oggi, in questo tornante della storia, Pietro e Paolo ci chiamano a lasciarci condurre e sostenere dallo Spirito Santo a ritrovare quella «speranza che non delude» (Rm 5,5), ponendo tenacemente in atto gesti di fraternità e di solidarietà, occasioni di incontro e di dialogo, testimonianza umile e fedele di un Dio che sa attraversare ogni nostra fragilità e farne germogliare vita fraterna, vita di Pasqua.

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