La situazione dei palestinesi nella striscia di Gaza (ma anche in Cisgiordania), è sempre più drammatica...
XXVI Domenica del Tempo ordinario: Il racconto di due volti e di un abisso

La parabola del ricco senza nome e del povero di nome Lazzaro è ancora una volta un racconto che provoca a prendere posizione.
Due volti che non si incontrano. Si presenta inizialmente la condizione dei due personaggi principali: il ricco e il povero. Il primo, dal modo di vestire e di godersi la vita, è evidentemente soddisfatto della sua condizione. L’altro è, invece, «gettato» (Lc 16,20) dalla vita davanti al portone del ricco, tormentato da fame cronica, alla mercé dei cani. Eppure, il ricco nella parabola non ha nome - nonostante sia evidente che, per la ricchezza regale di cui gode senza freni, sia certamente “uno che ha un nome” in società. Mentre al povero viene attribuito un nome provocatorio: Lazzaro, «Dio aiuta». Il ricco non ha alcun contatto con Lazzaro: neppure sa, neppure si accorge che questi sia alla porta di casa sua.
Due sorti che diventano definitive. Muoiono nello stesso momento, ma la loro sorte è invertita. «Dio aiuta» viene accolto nella vita promessa ad Abramo, il patriarca di tutto il popolo di Israele. Il ricco invece «viene sepolto», cioè sprofonda negli inferi, in un luogo di «tormento». Da lì, finalmente, si accorge dell’altro, ora sì «aiutato da Dio». E chiede che faccia per lui ciò che lui non ha mai fatto per Lazzaro: una “briciola d’acqua”, così simile alle “briciole di pane” che Lazzaro non riusciva a raggiungere... Ma questo è reso impossibile dall’abisso profondo che è continuato a esserci fra loro, e che ora è diventato invalicabile. Anche l’altro suo desiderio riceverà un rifiuto: l’avvertimento che egli vorrebbe inviare ai suoi fratelli è giudicato non tanto impossibile quanto inutile, incapace di «persuadere» a conversione.
Tutto “già deciso?”. In prima battuta, la parabola suscita in me la fastidiosa sensazione che tutto sia ineluttabile, non modificabile: Il ricco è cieco rispetto alla presenza del povero, ma d’altra parte tutto è come se fosse già stato deciso da Dio. Lui ha ricevuto la propria parte di bene in vita, Lazzaro, invece, la propria parte di male, poi, il destino “giustamente” si inverte: dal tormento della fame per Lazzaro al tormento della fiamma per il ricco. Ma è questo il modo di “fare giustizia”? I “poveri” che ogni sera mangiano alla mensa della Caritas ci direbbero che “il paradiso è una promessa troppo lontana: noi abbiamo bisogno oggi di un po’ di bene che finalmente cambi la nostra sorte!”. Il fossato, l’abisso è il mar Mediterraneo che inghiotte centinaia di persone alla volta, e chi lo valica e arriva in terraferma si troverà di fronte ad altri fossati ben difficili da superare... questo raccontano tanti dei migranti al centro di ascolto diocesano, a presentare il loro bisogno, che si chiama documenti, alloggio, lavoro, ... dignità... E l’abisso di voracità e di ingiustizia ingoia da secoli popoli interi... È davvero per sempre inevitabile? I dis-graziati otterranno grazia solo oltre questa vita? E noi “graziati” in questa vita incontreremo di là solo disgrazia?
Un abisso che si può valicare. Forse il “cuore” simbolico della parabola è proprio questo «grande abisso» (v. 26): quello che separa in vita il ricco e Lazzaro s’allarga e diventa invalicabile oltre la morte. Mentre qui il ricco avrebbe potuto varcarlo: accorgersi del povero alla sua porta, lasciarsi “mordere le viscere” dal disgraziato in mezzo alla strada come sceglie di fare il samaritano (Lc 10,29-37), ed essere lui “l’aiuto di Dio” per l’altro che non aveva neppure la voce per chiedere. Qui, ora, ciò che la parabola presenta come inevitabile può essere modificato: se i due si incontrano, è possibile una trasformazione del cammino di entrambi. Lazzaro viene riconosciuto degno di attenzione e di cura, il ricco ritrova la propria umanità. Nel condividere il bene ricevuto viene riparato il male dell’altro, e la giustizia ritrova un volto umano, non quello della “sorte”.
Non una “sorte”, ma una scelta di umanità. La conclusione della parabola porta proprio a questo. Nel giudizio di inefficacia proclamato da Abramo rispetto alla conversione a opera di “uno ritornato dai morti”, c’è il rifiuto di Dio di sostituire la scelta di assunzione di responsabilità rappresentata dall’«ascolto della Legge e dei profeti», con la “persuasione” operata da un prodigio. E i cristiani sanno bene che non basta l’apparizione di Gesù risorto a “convincere” il cuore, se il cuore non sceglie, nella sua pur fragile libertà, di lasciarsi incontrare dal Crocifisso Risorto.
Accogliere l’appello alla scelta di condividere il proprio bene prendendosi cura del povero, del disgraziato che è alla mia porta, diventa fondamentale per “mutare la sorte” dell’intera umanità. Qui e ora. Non la cecità ci salva dal senso di colpa sterile, ma l’umile decisione di guardare in faccia il più disgraziato, di riconoscere in lui il mio volto, e, con sorpresa, il volto di Gesù, pur deformato da mille cicatrici. Non si tratta di una sorte già decisa, ma già ora, già qui, di giustizia che pur faticosamente si compie, di un Regno di Dio che lievita come pane da condividere fra tutti. In una ritrovata, inattesa speranza, in una sorprendente condivisa gioia.