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Educare alla speranza anche quando c’è solo disperazione

16/10/2025

Dalla collina di Sderot famiglie di israeliani assistono al bombardamento di Gaza, lo ha riportato il Corriere della Sera. In questa “scampagnata con vista sulla morte” (sic!) si registrano i commenti: “È giusto che bombardino”. E i bambini? “I bambini di Gaza festeggiavano con dolcetti il 7 ottobre”, “Insegnano loro a uccidere gli ebrei”. Non so se il Corriere sia da considerare un giornale di parte, ma dal resoconto traspare una “zona di interesse 2.0”, in cui la colpevole indifferenza ha solo lasciato il posto all’inumano. Queste, invece, le parole di un ex deputato della destra israeliana, Moshe Feiglin: “Ogni neonato a Gaza è un nemico. Dobbiamo conquistare Gaza e non lasciare lì un solo bambino”. Di fronte a ciò la coscienza ammutolisce, non ha neppure fiato per sussurrare. Neppure di fronte ai bambini riusciamo ad avere pietà e compassione. Tutto l’odio subìto, alla fine ha vinto, la memoria è oltraggiata, e l’uomo tutto, muore ancora una volta. “Chiunque riceve uno di questi piccoli fanciulli nel nome mio, riceve me e chiunque riceve me, riceve colui che mi ha mandato”. Queste le parole di Gesù che, con chi scandalizza i bambini non ci va leggero: “Sarebbe meglio per lui annegare con una macina appesa al collo”. Mi chiedo se esista un educatore, un genitore, un animatore che possa partire dal presupposto che non vi sia speranza di cambiamento, nemmeno testimoniando controcorrente amore, perdono e l’idea di una vita diversa. Mi chiedo cosa sarebbe il mondo se tanti educatori, genitori, laici, sacerdoti smettessero di alimentare questa speranza convinti dell’inutilità della loro testimonianza, non credendo più nell’uomo. Suggerirei, sommessamente, di cambiare mestiere o ruolo. La fede è un dono, credere è una scelta che ciascuno fa tutte le mattine e tutte le sere prima di addormentarsi. In questi tempi violenti e colmi di subumanità, credere nella speranza di vita nuova di un bambino, rappresenta un modo autentico di celebrare il Giubileo. Il resto, bene che vada, è colpevole silenzio.

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