La settimana scorsa abbiamo pubblicato una presentazione della lettera apostolica di papa Leone sull’educazione:...
Arti&mestieri/5. Il mondo della segheria Velo Felice e figli a fine corsa
Via Vicinale delle Corti, a Treviso, la strada di San Pelaio che richiama il tempo in cui tutto era più piccolo tra corsi d’acqua e ponticelli, fa librare la fantasia verso un luogo che non c’è più.
E, invece, esiste: è il mondo della segheria Velo Felice e figli, ridente, aperta al sole alla pioggia, alla neve. Stride una sega, si lascia tagliare un’asse che dalle mani sapienti viene, poi, appoggiata accanto ad altre.
È al lavoro Francesco, l’ultimo rimasto della famiglia, settantuno anni e una passione incontrollata per il proprio mestiere. Con un gesto d’invito a seguirlo, esce sul retro, si ferma a metà di un ponticello dove, in pochi metri quadrati, si forma l’energia per mandare avanti l’intera segheria.
Acque irrequiete sussurrano, filano giù e alzano la voce rinvigorite dall’ultimo sole. Tace un’anatra tra il profumo del muschio e della legna, sguscia via un’altra, a pelo d’acqua, sotto alberi alteri in quell’angolo di vita dove un tempo cigolava un mulino.
Nel primo dopoguerra, Felice Velo, classe 1914, finalmente a casa dalla Libia, dopo il suo contributo alla guerra nel deserto, può pensare al domani ad una famiglia a dei figli a un mestiere. Compra il mulino ormai in disuso: là ha immaginato la sua segheria. E così sarà.
Il Giavera, corso d’acqua con sorgente nel suggestivo Forame del Montello, dopo aver percorso parecchi chilometri tra paesi e campi, qui, diventa Pegorile, a ricordare le acque dove le pecore si abbeveravano, e con questo nome, che tanto piace, si affaccia alla proprietà di Felice Velo. Iniziano, così, fatiche e ingegno per dividere le acque, incanalarle e adattarle all’uso della segheria, lasciando andare il sovrappiù in un ramo per lo sfogo delle piogge sovrabbondanti.
Lo sa e lo dice Francesco che in quel luogo sta trascorrendo la vita. Da bimbo ci giocava, da ragazzino dava una mano, da adulto ha avuto la certezza che quello sarebbe stato il suo lavoro, accanto al padre e ai fratelli. Nel 1989 Felice muore, un figlio lascia la segheria: restano Francesco e l’altro fratello che, anni dopo, l’età e qualche acciacco costringono alla ritirata. Il binario per il trasporto tronchi e la lunga sega da lui manovrati restano muti, velati di segatura adagiata dal tempo, spolverata di tanto in tanto.
Non molla Francesco: dieci e più macchine sono pronte e obbedienti a qualsiasi suo ordine, alimentate dal Pegorile, che scorre e canta là dietro. Appoggia le mani sulla manovella, gli ingranaggi girano e sollevano la porta: l’acqua si ingrossa, precipita nella turbina e mette in moto l’albero d’acciaio che entra sotto il pavimento e porta il movimento in un tracciato tortuoso dall’una all’altra macchina, per soddisfarne le esigenze. Ai piedi di ogni attrezzo l’albero si collega a due pulegge di dimensioni adatte al movimento richiesto.
“Oggi - dice Francesco -, faccio funzionare ad acqua soltanto una sega, un po’ per i costi dell’importante manutenzione necessaria all’intero sistema, un po’ perché l’energia elettrica velocizza il lavoro”.
Eh già, è perduto colui che non si adegua a questi anni di fretta, di corse senza pausa. Lo sa, ma non rinuncia del tutto all’affetto per quell’acqua che considera un dono di suo padre Felice. L’arte imparata gli suggerisce cura, cautela e rigore.
La Velo Felice e figli oggi non è esclusivamente segheria come alle origini: lavoro e commercio avanzano quasi di pari passo.
La qualità ricercata dai clienti
I pochi falegnami a servirsi ancora del legno e le famiglie sono i clienti più affezionati a Francesco, persone che cercano la qualità.
In effetti, tutto nel luogo ispira fiducia: bellezza e cura del polmone verde vivo a un passo dalla città, il profumo del legno, il vecchio banco mille e mille volte rigato, la piramide di crusca alla quale attingono i meccanici per pulire lo sporco oleoso delle officine.
L’occhio di Francesco non si lascia ingannare: conosce il legno come la sua segheria, lo padroneggia e lo ama tanto da avere collezionato i trecento legni lavorati in Italia nel dopoguerra e pervenuti da ogni angolo del mondo. L’assortimento di quelle tavole lunghe circa due metri è stato ceduto al Lepido Rocco di Lancenigo, scuola professionale che ora, grazie a lui, possiede la xiloteca più grande d’Europa.
Ci sarebbe ancora tempo prima di lasciare la segheria, ma a Francesco il pensiero turbina già in testa, gli suggerisce una data non lontana.
La ipotizza muovendo i passi in tondo: sale un nodo dal profondo che va a spegnergli lo sguardo. Come si fa ad allentare una passione? Come dare un valore al sudore versato in quel complesso costruito nel 1950 e via via ampliato e ristrutturato? Ai due giganteschi pioppi e all’intero parco con piante di svariate specie e acque garrule?
Si aggiungono, poi, altri valori coltivati da Felice e Francesco: la resistenza, il legame con l’ambiente e quello con il mestiere, tre patrimoni che l’intelligenza e il saper fare dei trevigiani non possono lasciar andare: è un dovere tenerle in vita e avanzare nel progresso senza perdere la sapienza del passato.



