venerdì, 15 agosto 2025
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Ritorno a casa da stranieri: il destino dei rifugiati afghani

Forte pressione migratoria sul fragile Afghanistan. Costretti a tornare dall’Iran, gli afghani affrontano siccità, povertà e repressione

Tra qualche giorno ricorre il quarto anniversario del ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, quando, il 15 agosto 2021 issarono la loro bandiera sul palazzo presidenziale di Kabul, dopo l’uscita frettolosa dei contingenti Nato a guida statunitense, di cui era parte anche l’Italia. Da allora, la condizione di vita degli afghani non accenna a migliorare né per i residenti, né per i profughi nei Paesi vicini. E’ su questi ultimi – anche per effetto della breve guerra tra Israele e Iran e le tensioni in Pakistan - che l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) e la Federazione di Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale (Ifcr) da più di un mese hanno lanciato l’allarme sui ritorni forzati.

Secondo l’Unhcr, tra il 15 settembre 2023 e il 9 luglio 2025 oltre 1,1 milioni di afghani sono rientrati nel loro Paese dal Pakistan, mentre un altro milione e mezzo di persone sono tornate dall’Iran tra il 1° gennaio e il 31 luglio 2025. Secondo il Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC) un altro milione di afghani era stato rimpatriato dall’Iran solo nel corso del 2024.

Un’ondata migratoria di ritorno provocata dalle direttive di rimpatrio emanate dai governi di Islamabad e Teheran, con una impennata dopo la ‘guerra dei 12 giorni’. I ritorni giornalieri dall’Iran sono aumentati in modo significativo dopo il 13 giugno, con una media attuale di 10 mila persone al giorno rispetto ai 2 mila precedenti.

Tagli alla cooperazione e tensioni interne

La mobilità accompagna le popolazioni afghane da decenni: guerra, insicurezza, povertà, catastrofi naturali hanno reso l’Afghanistan uno dei paesi con il maggior numero di migrazioni forzate sia esterne che interne. L’Unhcr stima che gli afghani che vivono ancora fuori dal loro territorio superano i 9 milioni, di cui 4 sfollati interni.

Insieme, l’Iran e il Pakistan accolgono già il 90% dei rifugiati afghani. Entrambi i Paesi sono alle prese con crisi economica e tensioni sociali. Chiedergli un ulteriore impegno non è possibile, anche perché l’Iran è sotto sanzioni internazionali e sarebbe impossibile convogliare denaro a Teheran a fronte dell’accoglienza. Discorso analogo per quanto riguarda il Pakistan che in tempi recenti ha contribuito a sostenere i Talebani e quindi per la comunità internazionale non avrebbe senso pagare il regime pachistano per tenersi i profughi. Un gioco pericoloso, che potrebbe presto spingere sul fronte sud-orientale dell’Europa nuovi migranti.

Il rientro improvviso di oltre due milioni di persone ha aggravato ulteriormente la crisi umanitaria nel Paese, mettendo a dura prova le già scarse risorse delle comunità più vulnerabili.

A peggiorare questa crisi i brutali tagli ai fondi umanitari da parte di Stati Uniti e paesi europei, compromettendo le capacità delle organizzazioni umanitarie di dare supporto alla popolazione.

Le espulsioni dopo anni di accoglienza

L’Iran è il Paese che ospita più rifugiati al mondo, con quasi 4,5 milioni di persone, per la maggior parte afghani (4 milioni) in fuga da decenni di guerra e violenza. Molti di loro avevano cercato rifugio dopo il ritorno dei talebani al potere nell’estate del 2021.

Gli afghani sono sempre più spesso accusati di essere la causa delle difficoltà economiche, delle carenze e dei problemi sociali in Iran ma anche in Pakistan. Per poter lasciare questi Paesi i profughi, specie quelli non in regola con i documenti, sono stati costretti a svendere frettolosamente tutti i loro averi. Una situazione che non cambia di molto una volta entrati in Afghanistan dove le autorità talebane, impreparate ad affrontare un flusso di ingressi così intenso, si sono limitate ad installare alcune tende in campi privi di servizi igienici, elettricità e acqua potabile. Senza contare i pericoli che i profughi affrontano nel viaggio di ritorno: furti, rapine e violenze di ogni genere.

Si stima che più della metà degli afghani rimpatriati in questi ultimi mesi non abbia mai vissuto nel Paese.

L’accelerazione dei rimpatri

Pakistan e Iran hanno accelerato negli ultimi tempi le pressioni per favorire il rimpatrio dei rifugiati afghani presenti sul territorio nazionale. Islamabad ha dichiarato la volontà di espellere tutti i migranti privi di documenti entro il primo novembre, mentre Teheran aveva posto come data limite il 6 luglio. A motivo di tanta urgenza il governo pakistano ha addotto il deterioramento delle relazioni con il regime talebano, oltre a questioni di sicurezza interna e di difficoltà economica. Il giro di vite contro i migranti afghani risente, inoltre, delle tensioni geopolitiche, che alimentano un forte clima di sospetto nei confronti degli stranieri in Iran dopo la guerra dei 12 giorni con Israele.

Si prevede che entro la fine dell’anno un altro milione di persone dall’Iran affluirà in Afghanistan.

La drammatica situazione dell’Afghanistan

Il tema del rimpatrio, soprattutto nel caso dell’Afghanistan, pone un problema umanitario impossibile da ignorare. Il ritorno al potere dei talebani nel 2021, dopo la dipartita degli occidentali dal Paese, ha avuto conseguenze drammatiche sia al livello internazionale che al livello locale. L’economia afghana ha subito un crollo significativo, con picchi di povertà mai visti nella storia del Paese e la qualità della vita si è fortemente deteriorata anche per effetto dei cambiamenti climatici. Le violazioni dei diritti umani continuano senza sosta e i rimpatri forzati rischiano di aggravare ulteriormente uno scenario già fortemente critico con una profonda crisi umanitaria multilivello.

Una condizione che viene aggravata dalle sanzioni economiche varate nel 1991 dalle Nazioni Unite e inasprite nel 2021 dopo il ritorno al potere dei talebani.

Per raccontarci cosa sta succedendo nel Paese, abbiamo con Whatsapp raggiunto Jacopo Caridi, direttore di NRC per l’Afghanistan. Una lunga esperienza in aree di crisi: Serbia, Yemen, Iraq, Moldavia, Ucraina e ora da maggio a Kabul.

Secondo l’Unhcr, agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, quasi 800mila afghani sono tornati dall’Iran dall’inizio di giugno, dopo che Teheran ha imposto il 6 luglio come termine ultimo per l’espatrio dei migranti irregolari e dei rifugiati. Girando per l’Afghanistan qual è la situazione che emerge?

Il rientro degli afghani è in corso già da qualche tempo... Più che ritorni possiamo dire che i movimenti stagionali o annuali erano una prassi diffusa come lavoratori transfrontalieri soprattutto nel settore agricolo. Era un flusso di migranti economici che si spostava per lavorare. Da giugno, a seguito dell’inasprirsi del conflitto tra Israele e Iran, si è accentuato il ritorno di famiglie che erano in Iran da 10-20 anni o anche più. Dallo scoppio della ‘guerra dei 12 giorni’ abbiamo avuto subito un afflusso massiccio di persone che ora si attesta su una media giornaliera di 42 mila rientrati. Ci sono alcuni fattori che hanno rinforzato questo movimento. Uno è stato l’inizio della guerra, l’altro che alcuni afghani sono stati arrestati in Iran con accuse di spionaggio a favore di Israele. Questo secondo fattore ha creato un sentimento negativo della società iraniana verso gli afghani. Il terzo fattore è la dead line che Teheran ha dato mesi fa a tutti gli afghani irregolari - che sono in Iran senza documenti – di andarsene entro il 6 luglio. Molti stanno quindi tornando in modo volontario perché non vogliono essere arrestati. Altri ancora stanno rientrando ‘deportati’ con dei bus.

Molti dei rimpatriati dicevi vivono in Iran da decenni e alcuni ci sono persino nati. Arrivano con qualche fagotto e senza un futuro, in un Paese che è profondamente cambiato! Quali sono i bisogni urgenti che incontrano?

Chi è andato via 10, 20 o 30 anni fa aveva venduto tutto quello che aveva in Afghanistan e si erano trasferiti. In Afghanistan non hanno più niente e ora ritornano con niente. Ritornare indietro per loro significa abbandonare la loro casa, il loro lavoro in Iran e tornare nuovamente senza nulla. In aggiunta a questo sono evidenti anche le differenze culturali. Come lo vedi? Quando si osservano le persone che rientrano al confine: dal make-up delle donne, dall’abbigliamento più occidentale... Queste persone che avevano cominciato ad inserirsi nella comunità iraniana si trovano ad affrontare ora difficoltà di integrazione nelle norme culturali afghane. Al confine arrivano dopo un viaggio di 2-3 giorni all’interno dell’Iran e questo dipende da dove vivevano. Per lo più in autobus, a volte famiglie intere, spesso donne con bambini. Vengono fatti scendere e sono semplicemente disorientati, stanchi e affamati. Una volta arrivati al confine devono adempiere alcune procedure burocratiche per entrare in Afghanistan che in una situazione normale richiedono 2-3 ore, mentre ora ci mettono anche un giorno prima di riuscire a passare il confine. Dormono per terra, mancano i servizi igienici, c’è molto movimento nonostante ci siano diverse organizzazioni che, con il supporto del governo, cerano di coordinare gli aiuti per quanti ritornano. Siamo in un’area desertica, dove in questo periodo non mancano le tempeste di sabbia. Al confine ora c’è bisogno di acqua, cibo, tende, cure mediche, trasporto per raggiungere la città principale che è Herat e che dista a circa 70 km.

Come sta rispondendo la popolazione afghana al rientro di questi ‘fratelli stranieri’?

In questo momento ci sono molte persone afghane che vanno al confine aiutando nei trasporti con la loro macchina portandole in città. Questa situazione presumibilmente non durerà a lungo... specie se il flusso continua. Quando potenzialmente ci saranno 3-4 milioni di persone che vanno ad utilizzare gli stessi servizi già deficitari, sicuramente nasceranno tensioni tra quelli che sono ritornati e quelli che sono rimasti nel paese nonostante tutto. Già ora metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, il sistema sanitario è al collasso, le scuole sono pochissime, non c’è un sistema di protezione sociale. A ciò si aggiungano gli impatti del cambiamento climatico, come la siccità degli ultimi decenni, che compromettono i raccolti, spingendo metà della popolazione in una situazione di vulnerabilità grave. Ci sono anche alcune retoriche sul fatto che chi è andato via è andato via quando il Paese aveva bisogno ed è ritornato ora quando il Paese si è stabilizzato e vengono solo ad utilizzare le risorse. Ci sono poi visioni diverse di comunità e quindi dipenderà molto dall’eventuale attivazione di un processo di integrazione appropriato oppure no. Se le risorse e i servizi locali non saranno adeguati all’incremento della popolazione il sistema socio-economico collassa. C’è necessità quindi di un supporto della comunità internazionale per evitare il collasso interno e quindi nuove migrazioni tra 1-2 anni quando la gente non riuscirà a sopravvivere oppure di tensioni interne tra quanti sono ritornati e chi già vi risiede da sempre.

4 anni sono passati dal ritorno dei Talebani. Qual è la situazione economica dell’Afghanistan?

Nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano il Paese è classificato al 182° posto su 193 paesi censiti nel 2024. Un esempio concreto per capire. Nel nostro team ogni staff supporta dalle 20 alle 30 persone all’interno della loro famiglia. I In questo contesto una sola persona che lavora prova a mantenere tutte le altre e in questo momento stanno ospitando almeno una famiglia che è ritornata dall’Iran in aggiunta ai 20-30 familiari che già supportavano in precedenza. C’è quindi ora questo sentimento di solidarietà che non potrà durare a lungo! Nei giorni scorsi ho avuto modo di visitare alcuni rientrati da qualche settimana che si sono sistemati in alloggi di fortuna ma che non hanno accesso all’acqua potabile perché i pozzi si sono esauriti o esce solo acqua salata. Per accedere all’acqua potabile se va bene devono fare 5-6 km a piedi o, i più fortunati, con un asino per portare 50-60 litri di acqua in un giorno che la usano per bere e per cucinare.

Questa situazione è omogenea sia nelle città grandi come Kabul, Kandahar, Mazar-e-Sharif e Herat che nelle aree più interne?

Da un punto di vista lavorativo l’unica possibilità viene dal trovare un’occupazione in città. Nel resto del Paese troviamo realtà rurali che si contraggono di anno in anno per effetto dei cambiamenti climatici e la mancanza d’acqua. La produzione agricola che caratterizzava l’Afghanistan negli ultimi 30 anni si è contratta drasticamente. Girando di vede come un tempo molti terreni una volta erano campi arati e produttivi mentre ora non lo sono più! Quindi anche la gente che è andata via 20-30 anni fa coltivava la terra ora non può più farlo. La nostra aspettativa è che molti cercheranno di andare nelle grandi città dove in un modo o in un altro troveranno qualche lavoro. Ci sono diverse persone che chiedono l’elemosina per la strada. In termini di possibilità abitative nelle città i prezzi sono elevati, mentre se va in campagna sono molto più contenuti. La ricerca dell’alloggio è una parte fondamentale del percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Oltre 3 milioni sono gli sfollati interni e in aggiunta a quelli ritornati recentemente da Iran e Pakistan che sono altri 2 milioni ammassati nei diversi insediamenti precari, divenuti ormai stabili, situati ai margini delle principali città

Il tema migratorio non riguarda però solo l’Iran. Anche in Pakistan vi è una forte presenza di afghani?

Sì. In Pakistan ci sono oltre 2 milioni di afghani, mentre in Iran in totale sono circa 6 milioni di cui 4 milioni irregolari. Abbiamo visto anche dal Pakistan alcune ondate di persone ritornare. Ultimamente da fine maggio molti meno, a seguito di un tentativo di riavvicinamento tra i governi di Islamabad e Kabul. Attualmente, sono circa un migliaio al giorno gli afghani che rientrano dalla frontiera pakistana.

Iran e Pakistan non sono parte della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati. Poco conta considerando come il diritto umanitario è bistrattato oggigiorno?

Il diritto umanitario internazionale è fondato sull’impegno che gli Stati che prendono in modo spontaneo firmando le varie convenzioni per poi rispettarle. La questione è che le Nazioni Unite, che hanno sempre avuto un grosso ruolo perché queste convenzioni venissero rispettate, e alcune grandi nazioni abbiano fatto in modo di esercitare pressioni su chi non le rispettava sono oggi meno incisive. Alcuni stati stanno facendo dei passi indietro sulla centralità del diritto internazionale a vantaggio degli interessi interni. Dal punto di vista operativo sul campo vediamo che in passato quando incontravamo le autorità locali per negoziare l’accesso agli aiuti umanitari venivano utilizzate le buone pratiche internazionali, ora dopo la situazione di Gaza in cui il diritto umanitario è stato disatteso risulta molto più difficile farlo applicare. A ciò si aggiunga che la riduzione dei fondi da parte di Stati Uniti ed Europa per gli aiuti umanitari, a vantaggio di nuovi armamenti, farà diminuire la capacità negoziale sia dell’Onu che delle organizzazioni umanitarie. In poche parole possiamo dire che il Diritto Internazionale Umanitario e i Principi Umanitari che guidano e supportano gli interventi umanitari a protezione dei civili duranti conflitti sono sotto attacco ed è imperativo per tutti dagli Stati ai semplici cittadini di fare il possibile per ristabilire il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei principi umanitari altrimenti potremmo vedere presto che in nuovi conflitti nessuno sarà in grado di proteggere i civili. Avendo un conflitto attivo in Europa queste mie parole spero facciano riflettere molti!

A fronte di tutto questo, cosa può fare la comunità internazionale?

Una delle nostre principali richieste è di allocare fondi a favore dello sviluppo economico dei paesi in crisi, mentre finora sono stati allocati molti fondi per le emergenze. Seppure l’Afghanistan non è più in un conflitto vero e proprio da molti anni, i donatori hanno dato soldi quasi esclusivamente per gli aiuti umanitari di corto periodo (come i kit igienici) ma non soldi per costruire invasi o dighe per lo stoccaggio dell’acqua o per costruire strade. E’ necessario quindi destinare fondi per progettualità di sviluppo vero e proprio del Paese, in modo tale che le persone riescano a crearsi un futuro.

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