venerdì, 28 marzo 2025
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Sud Sudan: tra i più poveri del mondo

La testimonianza di Alberto Migliorini, medico del Cuamm

Oggi, il Sud Sudan sta subendo gli esiti dell’integrazione tra le due etnie più importanti, quelle dei Dinka, da una parte, e quello dei Nuer dall’altra, che sta aggravando la fragilità devastante di questo giovane Paese, rendendone cronica l’instabilità.

Le cause del conflitto etnico corrono indietro nella storia millenaria di questi popoli agro-pastorali - entrambi parte dei nilotici - e traggono origine più da fattori geografici, che politici. Spesso, le due comunità hanno combattuto a causa della riduzione del bestiame, dei diritti sulla terra e delle fonti d’acqua, della siccità e del degrado ecologico. Nel recente passato coloniale, le differenze tribali sono state sfruttate secondo la logica “dividi e comanda”.

In base all’indice di sviluppo umano dell’Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) il Sud Sudan è, con la Somalia, il Paese più impoverito del mondo. Ha legami molto stretti con il vicino Sudan, da cui si è separato nel 2011, a seguito di un referendum popolare, e dopo decenni di guerra. Il Paese, nonostante le sue ricchezze naturali, è afflitto da crisi di vario tipo: le sempre più frequenti e intense alluvioni, acuite dal cambiamento climatico, che hanno colpito il territorio anche di recente.

Nel Sud Sudan dal 2006 opera l’ong Medici con l’Africa Cuamm, dove abbiamo raggiunto via Skype Alberto Migliorini (nella foto), giovane medico vicentino, per raccontarci la sua esperienza e la situazione nel Paese più povero al mondo. Alberto si trova a operare nell’ospedale di Yirol nello stato centrale di Lakes State, con una popolazione prevalente di etnia dinka. Ci racconta come l’alto tasso di analfabetismo, la scarsità di mezzi economici e la permanenza di forti legami con le tradizioni sciamaniche facciano sì che ancora oggi le cure sanitarie presentino difficoltà di accesso. Eppure, il Cuamm, principale partner del Ministero della Sanità, offre per vocazione le proprie cure gratuitamente.

Il racconto passa, necessariamente, per la storia recente del Paese. “Da qualche anno, tra il 2019 e il 2021 a seconda delle zone, il conflitto è stato risolto, anche se la situazione, sia a livello politico che economico-sociale, risulta fortemente compromessa”. Ci sottolinea che, da quanto vede, a livello sanitario non c’è un problema diffuso di mancanza di cibo o di denutrizione, semmai di ridotte quantità e nutrizionalmente non efficaci, per cui la maggior parte della gente fa solo un pasto al giorno.

Il Sud Sudan è il Paese più giovane dell’Africa. L’età media della popolazione è di 18,7 anni, con un alto tasso di mortalità infantile, e a fronte di un numero medio di cinque figli per donna. L’istruzione primaria arriva a un bambino su due. Per le ridotte risorse economiche non è raro trovare i bambini impegnati in lavori domestici o che non proseguano gli studi. “Quello che arrivano ad avere con il loro sistema reddituale è un pasto al giorno. Tutto ciò che è oltre, dai vestiti a una casa in muratura, diventa problematico”.

Alla domanda se dai suoi incontri percepisca che i giovani abbiano delle speranze, il medico ci risponde che “ciò che caratterizza i giovani sudanesi, e in parte li giustifica, è la rassegnazione per la situazione difficile che da tanti anni li sta provando, e mina la prospettiva di un futuro migliore rispetto ai loro genitori”. Vivendo con loro “mi viene da dire che gli manca effettivamente qualcosa di oggettivo per coltivare la speranza, dovendo arrabattarsi ogni giorno per qualcosa da mangiare o recuperare l’acqua dal pozzo. Probabilmente stanno prendendo consapevolezza che la guerra civile non è la soluzione per un riscatto, ma che è necessario attivare qualcosa di diverso per non continuare solo a sopravvivere”.

Su circa 11 milioni di abitanti, 2 milioni sono gli sfollati interni a cui si sono aggiunti, dopo lo scoppio della guerra civile in Sudan nell’aprile 2023, quasi 800 mila profughi, che vi hanno trovato rifugio. Abbiamo chiesto alla referente del Cuamm per il Sud Sudan, Chiara Scanagatta, come la popolazione locale si è fatta accogliente dei nuovi arrivati.

“La situazione è molto diversa - ci risponde al telefono -, a seconda delle zone del Paese dove sono presenti diverse realtà migratorie. Gli sfollati interni vengono accolti dalle comunità stesse, e non vanno a costituire dei campi esterni. Trattandosi di popolazioni nomadi, questi movimenti sono abbastanza comuni, anche se, visti i numeri, l’integrazione non è indolore, considerate le poche risorse. È un continuo ricreare equilibri, dove le comunità si dimostrano resilienti. Il nord, dove sono più evidenti delle zone di raccolta di sfollati e rifugiati, rimane la parte più instabile del Sud Sudan, per effetto anche dell’emergenza profughi dal vicino Sudan”.

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