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Violenza in carcere: “Riempire i vuoti con sguardi e attenzioni”
La cronaca ci restituisce la realtà del carcere come un concentrato di violenza. La violenza, con i suoi corollari nascosti, separati, murati, lontani e inaccessibili, è insita alla realtà detentiva.
Come operatore sociale, direttore di un Istituto penale minorile (e come credente nel messaggio evangelico di una storia che non finisce con la violenza e l’ingiustizia), sento il dovere di partecipare e (nel mio piccolo) contribuire al dibattito sul significato, il valore, l’utilità del sistema esecutivo delle pene detentive.
La violenza è correlata a ogni forma di privazione coatta della libertà.
Oggi, però, abbiamo confuso e identificato l’idea della forza con la prassi della violenza, e si ritiene normale che per avere forza bisogna usare la violenza.
La violenza accade, come il bradisismo a Pozzuoli, l’acqua alta a Venezia, come un terremoto, un’alluvione. La violenza è un evento straordinario, ma possibile, così possibile da diventare normale.
Straordinario e normale si mescolano, e si accettano senza critica, come fatti ordinari, comuni, quotidiani.
Porto alcuni esempi di vita carceraria dove la normalità contiene violenza: la normalità delle attese lunghissime e immotivate, la normalità dei linguaggi volgari e umilianti, la normalità della privazione della privacy, la normalità delle reazioni immediate, simmetriche e aggressive. Potrei scendere nei particolari e allungare la lista.
Da queste “normalità” esplode l’aggressione fisica contro un agente di polizia o contro un detenuto.
Provo a fare un ragionamento ordinato: “A cosa serve” il carcere?
Prima però devo rispondere a questo: “Che cosa è”, oggi, il carcere?
Il carcere è oggi un contenitore di vite. Vite diverse e abbandonate, che si appoggiano l’una all’altra, depositate dentro mura e regole, alimentate da rabbia, annullate di senso, fatte di gesti ripetuti e codificati. Il carcere è un contenitore di vite discriminate per categorie: detenuti, polizia penitenziaria, educatori, direzione, comandante, cappellano, volontari.
Queste vite si incontrano, ma non si toccano, si vedono, ma non si guardano, si parlano, ma non si scambiano, stanno l’una di fronte all’altra, come sui camminamenti di un fronte, dove i contatti sono sempre a rischio di scontro.
Le carceri sono tutte uguali e poco importa se certi fatti di violenza sono accaduti a Milano, o a Palermo, a Roma, o Treviso.
L’unico antidoto che conosco contro la violenza è la “presenza”, perché la violenza riempie ogni spazio vuoto di significato.
Ripeto sempre a me stesso e ai miei collaboratori: stiamo presenti all’altro, davanti al proprio interlocutore, dobbiamo accompagnare, ascoltare, conoscere e riconoscere, davanti all’altro, guardare. Guardare è rispettare, proteggere, accogliere, conservare, vegliare e riconoscere i bisogni. Tutte queste azioni hanno la forza del cambiamento.
Quando non si guardano i soldati, gli eserciti commettono i più grandi soprusi.
Quando non si guardano gli individui nella loro umanità, si lascia spazio alle azioni più bestiali.
Quando gli utenti non sono guardati come destinatari di un servizio, l’unico bisogno che resta è quello di ridurli al silenzio.
Devo guardare e vegliare sulle persone che mi sono affidate: gli operatori di polizia e gli educatori, che vanno riconosciuti come persone e chiedono indicazioni chiare e sicure; e gli utenti-detenuti, che chiedono anch’essi di essere riconosciuti come persone, e necessitano, allo stesso modo, di indicazioni chiare e sicure.
Gli operatori portano professionalità, culture e fatiche; i detenuti hanno storie devastate, e parlano i linguaggi delle parole, dei corpi e dei segni.
La violenza fisica, psicologica, relazionale e gestionale dentro un carcere è normalizzata dai vuoti di presenza, di compagnia, sostegno, indirizzo, supporto e guida.
La violenza è sempre un “vuoto del potere” quando “non guarda” i suoi uomini, quando “non guarda” i suoi utenti.
Posso allora porre quest’altra domanda: “A chi serve” il carcere?
Il carcere serve a due categorie di persone.
Serve al reo che ha agito i suoi comportamenti antisociali, e di questi deve considerare genesi e conseguenze, e assumere i termini per riparare i danni causati alle vittime.
Il carcere serve alla società per riflettere sul male che è interno a essa.
Perché è di questo che si tratta: i reati avvengono dentro la società, sono comportamenti interni a una cultura dominante, che li produce.
La violenza “fuori misura e fuori contesto”, quella che vediamo alla televisione, che avviene per le strade, dentro le case, e anche dentro le carceri, si alimenta del vuoto del controllo (che è vuoto di valori e di regole), nasce dentro questa vita sociale, che cova il suo male silenzioso, sconosciuto, inspiegabile.
Il detenuto non è un mostro (malato e perverso), ma il figlio sconosciuto di famiglie, relazioni, città, spazi di vita, aspettative sociali, mode, solitudini radicali, socializzazioni invasive.
Allo stesso modo il poliziotto che abusa del manganello, non è un sadico giustiziere, ma un adulto confuso, che non possiede strumenti, se non la sua impotenza e la sua rabbia.
Come tutti egli ha scambiato la forza con la violenza.
Rispondo, a questo punto, alla prima domanda: “A cosa serve” il carcere?
Il carcere serve a guardare la parte ferita, malata, colpevole della società.
Questo io ho capito del carcere: è lo specchio diretto del nostro modo di vivere e pensare, lo scarto della nostra produzione culturale.
Dentro il carcere, per le strade, nelle case, gli autori di violenze verranno individuati e le responsabilità, dirette e indirette, chiarite; ma la Giustizia farà un passo avanti se sapremo tutti rispondere ai perché certi fatti violenti e aberranti diventano possibili.
Io, che sono solo il direttore di un carcere minorile, avanzo per me stesso, per i miei collaboratori, e per i miei colleghi che lavorano nelle altre carceri, la coraggiosa e umile riflessione che pone l’atto del “guardare” come fondamento di ogni responsabilità relativa alla sicurezza sociale, al controllo comportamentale, alla rieducazione e reinserimento dei condannati.