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Il mantenimento dei figli non può essere una condanna

L’assegno di mantenimento per i figli, ovvero la somma che uno dei genitori separati o divorziati deve versare per il sostegno dei figli, molte volte rappresenta un peso gravoso sul bilancio mensile del padre che, ahinoi, nella stragrande maggioranza dei casi è il genitore che lo deve versare alla madre. L’art. 337-ter del Codice civile stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; l’assegno di mantenimento serve a equilibrare questo contributo effettuando una comparazione delle risorse economiche di entrambi i genitori. Con ordinanza n.19822 del 14 luglio scorso, la Corte di cassazione ha bacchettato pesantemente la Corte d’Appello che aveva imposto a un a un padre con uno stipendio di euro 1400 di versare mensilmente per per il mantenimento della figlia la somma di euro 600, ovvero quasi la metà dell’entrata mensile. Il caso riguardava un padre che, unilateralmente, aveva deciso di lasciare l’azienda di famiglia per fare il dipendente, con un’evidente riduzione delle entrate mensili. Nonostante il reddito della madre fosse piuttosto alto, l Corte d’Appello non aveva effettuato alcuna comparazione dei redditi dei due genitori e, ritenendo che fosse stato il padre a scegliere autonomamente il peggioramento della propria situazione reddituale, lasciando la posizione di socio dell’azienda per rivestire quella di semplice dipendente, aveva confermato l’importo dell’assegno di mantenimento. La Corte di Cassazione, invece, ha sancito l’illegittimità della decisione dellaCorte d’Appello ritenendola viziata da un ragionamento giuridicamente errato. La Suprema Corte ha ritenuto che il compito del giudice in una causa di divorzio non sia quella di esprimere un giudizio morale o, peggio ancora, di punire scelte di vita di un genitore; piuttosto, il giudice deve fotografare oggettivamente la realtà economica attuale di entrambi i genitori e su quella applicare la legge che, appunto, è improntata al principio di proporzionalità. Salvo il caso in cui si dimostri l’atto fraudolento per sottrarsi agli obblighi di mantenimento, il giudice deve prendere atto del nuovo reddito, e su questo parametrare l’assegno.
La Corte ha sostenuto, con una decisione che potrebbe essere rivoluzionaria, che l’assegno di mantenimento non può mai essere punitivo tale da compromettere la dignità e la capacità di sostentamento del genitore che lo versa, perché imporre un assegno di 600 euro a una persona che ne guadagna 1400, con un affitto, bollette e necessità primarie personali a cui fare fronte, significa lasciarla in condizioni pressoché di indigenza.
La Suprema Corte ha censurato i giudici di ppello che avevano motivato la loro decisione anche sul presupposto del cattivo rapporto personale tra padre e figlia. La Corte di Cassazione ha stabilito che l’assegno di mantenimento di mantenimento non può essere usato come una punizione e le mancanze affettive e relazionali del genitore, essendo due questioni diverse che devono essere risolte con strumenti giuridici diversi. Insomma, la determinazione dell’importo dell’assegno di mantenimento deve basarsi su un mero calcolo matematico e proporzionale dei redditi e non su valutazioni morali o emozionali. In definitiva, l’assegno di mantenimento per i figli non può essere una condanna immutabile, né una sanzione morale contro i genitore che ha lasciato la casa coniugale, ma deve essere un contributo giusto, sostenibile e sempre proporzionato alle reali capacità economiche di entrambi i genitori.