venerdì, 17 ottobre 2025
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XXIX domenica del Tempo ordinario: Insistenza vincente, se ci si crede

L’esempio della vedova “assetata di giustizia”

Un giudice che non ha rispetto né per la Legge (di Dio) né per gli uomini. Una vedova che non ha altro mezzo per far pressione sul giudice che la propria insistenza. Ed è questa insistenza che trasforma il “molto tempo” del rifiuto nell’improvvisa rapidità di una decisione presa a suo favore.

La via dell’insistenza. La convinzione che la via dell’insistenza fosse l’unica perché le venisse fatta “giustizia” nei confronti del proprio “avversario”, è ciò che rende quella vedova così tenace, secondo la convinzione già espressa in Sir 35,14-24. Il giudice, che avrebbe dovuto essere il garante della giustizia proprio per gli ultimi come le vedove - senza più alcuno che le difendesse da chi poteva far loro torto - è “iniquo”, non intende garantire giustizia a nessuno. Con il suo comportamento trasgredisce entrambi i comandamenti fondamentali, verso Dio e verso il prossimo (Lc 10,27), e niente gli importa. Ma il “fastidio” che la vedova gli provoca lo convince a darle ascolto, e a fare ciò che nient’altro avrebbe potuto convincerlo a fare. La vedova “scomoda” il giudice con la sua insistenza, e costui, pur di ritrovare la propria tranquillità, acconsente a fare quello che lei gli chiede. La vedova, inerme e senza mezzi - neppure il denaro per corrompere il giudice -, ha a sua disposizione, però ha la capacità di infastidirlo oltremisura.

L’agire di Dio: non “subito”, ma “prontamente”. E Dio non si lascerà forse “infastidire” dai suoi “eletti”, da coloro che “gridano giorno e notte verso di lui”? Sì, farà loro giustizia “prontamente”. L’evangelista non usa il termine “subito”, che indica una scadenza temporale. Usa piuttosto un termine che indica un intervento continuo e strutturale da parte di Dio. Oggi (e sempre) l’ingiustizia non accenna a essere vinta “subito” da chi, secondo noi, dovrebbe intervenire in maniera decisiva, il solo che è davvero giusto, e può esercitare una forza alla quale nessuno può resistere, cioè Dio. E, tuttavia, si afferma che Dio interviene prontamente, non si ritira nella “comfort zone” dell’indifferenza, come fa il giudice. Che significa? Perché l’ingiustizia continua a dilagare sulla terra, a devastare la storia? E per un “caso” che si chiude con la difesa di chi è vittima, altri mille se ne aprono? Per una guerra che, almeno, entra in armistizio, se ne aprono subito altre per gli interessi e il cinismo di pochi? È evidente che il “prontamente” dell’intervento di Dio non coincide con il “subito” che noi vorremmo, non è l’intervento risolutivo che mette “subito” fine all’ingiustizia e all’iniquità.

Un intervento scandaloso. Ancora una volta siamo invitati a ritornare alla vicenda di Gesù: una vicenda nella quale Dio fa una scelta scandalosa, che sconvolge il nostro modo di pensare il suo intervento nella storia. Sceglie di morire in croce come il più infame dei delinquenti, pur di continuare a farsi prossimo di chi è vittima dell’ingiustizia suprema, della violenza della morte. Gesù sceglie di scendere nell’abisso dell’iniquità, di penetrarne il mistero, per incidervi “fessura di Pasqua”, che è rigenerazione della giustizia, cioè di una vita che sia infinitamente degna di essere vissuta, da tutti. Perché l’ingiustizia suprema è la morte, che ci porta via proprio ciò che ci sembra “più giusto avere”, cioè la vita. Contemplando colui che muore in croce, cogliamo allora il senso profondo di quel “prontamente”: è l’agire di Dio in Gesù, che muore vittima dell’ingiustizia umana, è l’agire del Padre e dello Spirito, che operano giustizia risuscitandolo il terzo giorno, e aprendo così a tutti la via che attraversa l’ingiustizia suprema della morte, la via della risurrezione.

La fede: lasciarsi trasformare il cuore e la vita. Ma il Figlio dell’uomo, quando alla fine verrà - no, anche quando quotidianamente viene, ad incontrare la vita nostra e del mondo intero - “troverà ancora fede, sulla terra?”. Troverà disponibilità ad affidarsi a lui e alla dinamica della Pasqua, di morte e risurrezione, non solo di fronte all’ingiustizia ultima, ma anche a tutte quelle che quotidianamente rovinano la vita nostra e, ancor più tragicamente, quella di popoli interi? Troverà persone disposte a lasciarsi trasformare il cuore e la vita dalla sua scelta, disposte a diventare, a loro volta, operatori di giustizia, di vita degna per tutti? Sì, ne troverà. Li sta già trovando, di giorno in giorno: chi nel pieno delle guerre pone gesti di pace, chi nel degrado fa scelte di dignità, chi nella disgrazia altrui non chiude occhi e cuore, chi nell’ingiustizia si mette insieme ad altri per trasformarla in giustizia...

Lasciamoci provocare dall’atteggiamento della vedova “assetata di giustizia”. Di fronte ai nostri dubbi e incertezze, a una preghiera spesso incostante e fragile, domandiamoci: quanto siamo disposti a comprometterci per chiedere con insistenza che sia riconosciuto ad ogni uomo e donna il diritto di vivere con dignità? L’insistenza di questa donna nasce dalla tenacia del corpo e del cuore femminile, la tenacia che partorisce vita. E chiama tutti noi, uomini e donne, a non disperare, a chiedere di diventare capaci di affidarci a colui che è morto per noi, per superare con lui perfino la morte, cominciando qui e ora a operare “prontamente” per la giustizia e per il bene dell’intera umanità.

Un ultimo appello, figlio di questi giorni febbrili per un cessate il fuoco in Palestina: non smettiamo di chiedere, a Dio nella preghiera, e ai potenti della terra, azioni di pace, e di dare la possibilità di germogliare al fragilissimo seme di pace appena seminato in Gaza, impegnandosi a custodirlo, a coltivarlo, per poterne, un giorno, condividere i frutti... E che un simile seme che fa “cessare il fuoco” sia sparso anche in tutte le altre terre che ancora lo attendono: Ucraina, Sudan, Myanmar, Congo...

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