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XXVII domenica del Tempo ordinario: Fede che rigenera la vita

La richiesta degli apostoli a Gesù indica anche a noi, oggi, il cammino di fiducia e speranza

La richiesta degli apostoli, «Aumentaci la fede!», segue l’insegnamento di Gesù circa la ricchezza (Lc 16), quindi l’avvertimento sugli «scandali» e il comandamento di perdonare «fino a sette volte al giorno» (17,1-4). È comprensibile che chiedano un “supplemento di fede”, riconoscendosi privi di risorse di fronte a un impegno tanto grande, avvertendo quanto esigente sia seguire Gesù.

Una fede più “viva”. Ma lui, come sempre, continua a sorprendere i suoi: non si tratta tanto di “avere più fede”, quanto piuttosto di una fede “più viva”. Il paragone con il granello di senape è determinante: un seme così piccolo che racchiude in sé una forza di vita tanto grande da spingerlo a «diventare un albero» capace di dar casa tra i suoi rami agli «uccelli del cielo» (13,19). E per Gesù non si tratta neppure di fare “grandi cose”, quanto piuttosto quelle che i servi fanno ogni giorno, ciò che è necessario al proprio padrone, dall’arare il campo al preparargli e servirgli da mangiare. Un impegno così “normale” che non prevede neppure una «gratitudine» supplementare da parte del padrone di casa. Anzi, chiede che si riconosca, una volta che si è fatto quanto si doveva, di essere servi che non sono più utili, e quindi non più necessari, perché il proprio compito è stato svolto (17,7-10).

Affidarsi all’agire di Dio. Può sembrare un modo duro e sprezzante di trattare l’impegno di coloro che, pure, lui ha scelto e inviato «ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi», dando loro «forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie» (9,1), affermando: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (10,16).

Eppure, attingendo alla propria esperienza, nel suo stile che sempre rilancia e approfondisce una relazione con Dio tanto nuova e insieme antica, Gesù propone non una schiavitù sul modello del suo tempo quanto una relazione che va al di là di ogni logica di prestazione e ricompensa. Non è questione di un “di più” di fede per compiere opere meritevoli di lode. È piuttosto cogliere quanta energia di vita sprigioni, all’interno della propria esistenza, l’affidarsi al “fare di Dio” che oltrepassa di molto «quanto possiamo domandare o pensare, grazie alla potenza che già opera in noi» (Ef 3,20).

Una fede che genera tenacia. E mi collego, così, alla prima lettura di questa domenica, che avverto particolarmente provocatoria nel tempo che stiamo vivendo; un tempo in cui sperimentiamo impotenza e frustrazione di fronte a guerre e violenze che fanno strage di popoli interi, a Gaza come in Sudan, e in troppi altri luoghi del mondo. Il profeta Abacuc si lamenta con Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Non ha più forza la legge né mai si afferma il diritto» (Ab 1,2-4). La risposta di Dio termina con una sentenza lapidaria: «Il giusto vivrà per la sua fede» (2,4). Una fede da prodigi? No, fede da tenacia, fin nella consapevolezza della poca rilevanza, della piccolezza di quel che riusciamo a realizzare.

Servitori della vita. È la tenacia del seme di senape, strabordante di vita. Nell’impegno quotidiano che la vita chiede a ciascuno, qui e ora, e oggi e domani. La tenacia di servitori di una comunità, che è comunità di Dio: «Ecclesiam suam» come ricordava Paolo VI, non “Ecclesiam meam”. E questo sarà sufficiente a vivere in pienezza, liberi dalla pretesa di successi e ricompense: essere ciò che siamo chiamati a essere, servitori - come Gesù - della vita. Allora, trova senso che «il giusto vivrà per la sua fede»: al di là dei risultati, vivrà del sovrabbondare di vita che quel rapporto con Dio continua a donargli. Una vita capace di rendere perfino il mare terra buona perché un fico vi possa piantar radici. Una vita capace di attraversare dietro a Gesù perfino la morte, le tante, le troppe che distruggono l’umanità.

Fede che genera speranza che genera amore. Diventando capaci anche di una speranza che sostiene il nostro impegno e continua a renderlo creativo, pur nell’oggettiva pochezza dei risultati. Una speranza, una fede, che continuano insieme a liberare tutte le nostre energie, tutta la nostra immaginazione, tutta la nostra creatività, personale e comunitaria, per seguitare a inventare modi possibili con cui aver cura di chi è più piccolo e fragile, più indifeso e vittima di violenza e di ingiustizia. Allora sì: riusciremo a reggere fin dentro questo nostro tempo, senza disperare. A patto che, insieme, continuiamo a rinnovare il nostro affidarci a colui che mai ci abbandona, colui che perfino nel mare di croci e di morte sa seminare radici profonde e inestirpabili di risurrezione. Questo siamo chiamati a credere, questo siamo chiamati a sperare, per questo siamo chiamati, tutti e tutte, a continuare a servire i più deboli, a continuare ad amare.

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