La situazione dei palestinesi nella striscia di Gaza (ma anche in Cisgiordania), è sempre più drammatica...
Morte di Danilo Riahi all’interno del Cpa per minorenni di Treviso: la riflessione

Siamo rimasti tutti scossi e profondamente addolorati dalla notizia che un minorenne abbia deciso di farla finita, e sia riuscito nell’intento, quando era in attesa di conoscere le decisioni della Magistratura dopo il suo arresto e l’affidamento al “Centro di prima accoglienza” (Cpa) di Treviso (che non bisogna confondere con l’Ipm – anche se adiacente), dove il giovane era arrivato da Vicenza, accompagnato dai Carabinieri, dopo aver commesso una serie di reati. (Il Cpa, di Treviso, sarà, con tempistiche ancora non definite, trasferito a Mestre, mentre l’Ipm è in attesa della nuova struttura in fase di realizzazione a Rovigo, ndr). Per essere precisi “I Cpa ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento sino all’udienza di convalida (entro il termine tassativo di 96 ore) assicurando la permanenza degli stessi, senza caratterizzarsi come strutture di tipo carcerario. L’équipe del Centro predispone una prima relazione informativa sulla situazione psico-sociale del minorenne e sulle risorse territoriali disponibili, con l’obiettivo di fornire all’Autorità giudiziaria competente tutti gli elementi utili a individuare, in caso di applicazione di misura cautelare, quella più idonea alla personalità del minorenne” (fonte Ministero della Giustizia).
Come è potuto accadere? Com’è possibile ci siano ancora così tanti suicidi in carcere? Sono tante le domande che ci dobbiamo porre, come singoli e anche come società, di fronte a questi drammi. Da otto anni svolgo il servizio di cappellano e ho imparato a “sospendere il giudizio” e a relazionarmi con i giovani che arrivano in carcere come persone a pieno titolo e, quindi, come soggetti da amare e rispettare. Rileggo le parole del card. Martini: “La dignità della persona non può mai essere svalorizzata, snaturata o alienata, nemmeno dal peggior male che l’uomo singolo o associato possa compiere” e, quindi, provo grande tristezza e un senso profondo di fallimento. Il cappellano ha come missione principale di “stare” con i minorenni presenti in carcere minorile per offrire loro, con tanta delicatezza e discrezione, e qualora loro stessi lo desiderassero, un tempo di ascolto e di dialogo, un sostegno materiale e spirituale e, quando serve, anche un consiglio e un rimprovero. Perciò è molto doloroso per me sapere che un giovane sia così disperato da arrivare a scegliere di andarsene senza chiedere aiuto. Dopo questi fatti, c’è un senso di frustrazione che si fa strada e che mi obbliga a porre delle domande sul senso del servizio in carcere dove la situazione è diventata, nel corso di questi ultimi anni, sempre più complessa e difficile, tanto da sembrare che non ci sia alcuna soluzione all’orizzonte e non ci resti che rassegnarci. Penso allora alle parole profetiche scritte dal cardinale Carlo Maria Martini, in occasione del Giubileo del 2000: “Il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”. Sono trascorsi venticinque anni da quella affermazione e constato, con grande amarezza, che la situazione non è affatto migliorata, ma sicuramente peggiorata.
Faccio qui riferimento al degrado in cui si trovano gli Istituti di pena, che, a causa dei mancati interventi di manutenzione ordinaria, diventano luoghi di sofferenza non solo per i detenuti che ci vivono, ma anche per il personale che vi opera, in condizioni proibitive, e tante volte con un organico ridotto all’osso, costretto a turni di lavoro estenuanti e uno stress eccessivo. Si viene, quindi, a creare un ambiente nel quale diventa difficilissimo consacrare del tempo alla riabilitazione dei detenuti, e nel quale, invece, tutti gli sforzi sono volti a una corsa continua per tamponare le criticità che ormai sono all’ordine del giorno. Se l’ambiente di lavoro è pessimo per gli operatori, come può esserlo per i detenuti, che sono l’ultimo anello della catena? Certo, la custodia cautelare in carcere a volte si rivela una soluzione necessaria, soprattutto quando diventa “un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestano i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile”.
Quanti minorenni entrano in carcere non solo per la tipologia dei reati commessi e la situazione personale complessa, ma soprattutto per proteggerli, per porre fine a una condotta pericolosa per gli altri e soprattutto per loro stessi. È il caso del giovane che, poi, in un momento di prostrazione e disperazione ha deciso di farla finita. Adesso non mi resta che piangere per lui e condividere con la sua famiglia il profondo dolore per una perdita così grave. Vorrei tanto che questo fosse il sentimento di tutta la comunità cristiana e della società civile, per consentire un serio dibattito sulla dignità, che deve essere garantita anche ai detenuti.
Sono un ottimista ostinato e spero che questi fatti inducano tutti noi a riflettere sulle condizioni di vita dei detenuti in carcere e garantire loro quello che prevede la Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art.27), “Perciò le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona. Nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, da salvare, da riabilitare e da educare”, scriveva il card. Martini, e un pensiero va certamente a tutte le vittime di reato che attendono giustizia, ma anche a tutte le persone che sono ancora in attesa di conoscere la pena da scontare e vivono con sofferenza il tempo dell’attesa di conoscere il loro destino. Per le condizioni di vita in carcere, sentono questa esperienza come una umiliazione e possono arrivare a compiere gesti estremi. Avishai Margalit, scrive: “Distinguo società decente da società civile. Civile è una società i cui membri non si umiliano gli uni gli altri; decente è una società le cui istituzioni non umiliano le persone” (La Società decente, p.49).