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Gaza devastata


A quasi 22 mesi dall’inizio del conflitto a Gaza – era il 7 ottobre 2023 – la situazione umanitaria continua a peggiorare di giorno in giorno. Con l’intento di farci raccontare dal di dentro come vive la gente, questo lungo assedio e blocco degli aiuti, via WhatsApp a Gaza City siamo riusciti a raggiungere Asem Alnabih, 34 anni, sposato con due figli, portavoce della municipalità di Gaza.
Asem, come sta?
Sono vivo, il che a Gaza non è cosa da poco! Ma porto con me ferite profonde, alcune visibili, molte no. Ho perso parenti, amici, colleghi e vicini. Ogni giorno mi trovo di fronte a scene che traumatizzerebbero chiunque: famiglie che estraggono corpi dalle macerie, bambini che piangono per la fame, anziani che bevono acqua inquinata. Come persona, oscillo tra il torpore e un dolore travolgente. Come professionista, so di dover restare in piedi per chi non può. Non vedo mia moglie e i miei figli da quasi due anni, sono intrappolati fuori. Ma resto qui perché la mia gente ha bisogno di ogni voce, di ogni mano, di ogni grammo di forza che ci è rimasto.
Ci potrebbe raccontare brevemente come riesce ad operare in guerra la macchina amministrativa di una grande città come Gaza?
È un miracolo costruito sul sacrificio. La maggior parte dei nostri dipendenti comunali non è pagata, o è sottopagata. Molti hanno perso la casa. Eppure, si presentano. Organizziamo il lavoro in squadre di emergenza, spesso cambiando sede ogni poche settimane a causa dei bombardamenti e degli ordini di evacuazione. Diamo priorità ai servizi salvavita e ruotiamo le squadre per evitare il burnout, sebbene l’esaurimento sia ormai una condizione permanente.
Quali servizi pubblici, oggi, la città riesce ad erogare?
Attualmente, garantiamo acqua di base a circa il 30% della superficie totale, una raccolta rifiuti limitata nelle zone meno pericolose e un pompaggio minimo delle acque reflue per prevenire allagamenti totali. Abbiamo anche collaborato con volontari per riaprire le strade distrutte per consentire l’accesso ai veicoli medici. Cerchiamo di mantenere un livello di coordinamento di base per le emergenze sanitarie, ma i nostri strumenti sono limitati.
Quali sono le zone più colpite dai continui bombardamenti?
Nessun luogo è rimasto indenne, tutti i quartieri sono stati devastati fino a essere irriconoscibili. I campi profughi sono sovraffollati e spesso presi di mira. Ospedali, mercati, panetterie, scuole: tutto è stato bombardato o minacciato. Persino i cimiteri sono stati colpiti. Non c’è spazio sicuro qui. Gli ospedali, oltre che di feriti, ora si riempiono di gente denutrita.
Blocco delle frontiere, carenza di cibo e medicinali, blocco di corrente e carburante, carenza di acqua potabile: come la gente riesce a vivere nonostante questo?
Le persone si adattano in modi strazianti. Molti ancora mangiano una volta al giorno, spesso solo riso, e bevono del tè se sono fortunati. Innumerevoli altri ormai sono costretti a fare a meno anche di quello. Il combustibile scarseggia, quindi le famiglie bruciano legna, plastica e vestiti per cucinare. L’acqua potabile proviene da pozzi agricoli non sicuri o viene condivisa in lotti da 5 litri tra le famiglie. Le medicine vengono introdotte di nascosto, scambiate con oggetti di valore o razionate tra i membri della famiglia.
Ci racconti della condizione dei bambini. Cosa fanno durante la giornata, essendo le scuole chiuse?
Non stanno bene. Alcuni giocano tra le macerie o aiutano a prendere l’acqua. Altri disegnano scene di guerra o seppelliscono le loro bambole in tombe improvvisate. Si mettono in fila, per prendere qualcosa da mangiare, nei centri di distribuzione. A Gaza quest’anno la campanella della scuola non è suonata. La quasi totalità degli edifici scolastici sono stati distrutti. Le lezioni non hanno più orari e aule. Non ci sono più lavagne, libri, quaderni e matite. Che rimangono, però, nella memoria dei loro cuori e menti innocenti. I genitori cercano di insegnare loro a leggere e a fare di conto, ma pochi hanno l’energia o le risorse necessarie. Il trauma si manifesta in incubi, silenzio o aggressività. Meritano le aule, non i centri traumatologici. Invece, vivono in tende circondati dalla paura e dalla perdita.
Le donne sono il perno della vita quotidiana per i nuclei familiari. Su di loro gravano molte incombenze e questo le rende maggiormente vulnerabili. Cosa ne pensa?
Purtroppo, oggi Gaza è un luogo popolato da vedove e orfani. Questo lungo assedio sta distruggendo il nostro tessuto sociale. Le donne sono la spina dorsale della sopravvivenza. Raccolgono aiuti, cucinano senza combustibile, si prendono cura dei bambini feriti e mantengono un certo senso di normalità. Ma sono anche le più oppresse e meno protette. Molte hanno perso il marito e ora sono le uniche a provvedere a se stesse. Mancano prodotti per l’igiene. Le donne incinte non hanno accesso all’assistenza medica. Nonostante questo, mostrano una resilienza che mi rende ogni giorno più umile.
Quali sono le principali attività lavorative oggi per i gazawi?
Le persone riparano ciò che possono: tende, condutture idriche, scarpe, speranza. Alcuni barattano beni. Gli ingegneri cercano di ricostruire tubature rotte; i medici lavorano in circostanze incredibili. Ogni compito è basato sulla sopravvivenza. Il lavoro formale non esiste più per la maggior parte delle persone. Ma anche in mezzo al collasso, le persone trovano uno scopo nel servire le loro comunità.
Lei è anche ingegnere. L’assenza di carburante e di elettricità sono più di un semplice inconveniente per i palestinesi. Ci potrebbe spiegarci perché?
Senza carburante, non c’è acqua, non c’è raccolta dei rifiuti, non ci sono generatori ospedalieri. Ciò significa niente refrigerazione, niente strumenti medici, niente comunicazioni. Ogni sistema, dalla sanità ai servizi igienico-sanitari, dipende dall’energia. E senza di essa, andiamo incontro a morti per cause prevedibili.
Poi, c’è il tema delle macerie e dei rifiuti. Come state gestendo questa emergenza?
Israele ha distrutto l’85% del totale dei veicoli pesanti a Gaza, e questo ha influito sulla rimozione delle macerie e sulla gestione dei rifiuti solidi. Cerchiamo di liberare le strade principali per le ambulanze e gli aiuti umanitari. Ma senza carburante, i camion restano fermi. Usiamo attrezzi manuali quando necessario. I rifiuti si accumulano, causando malattie.
Come si vive con il continuo ronzio dei droni che volano tra le case, le tende, nei centri di distribuzione viveri?
Sono la colonna sonora della guerra. Il ronzio non si ferma mai! Spiano, prendono di mira e terrorizzano. Le bombe di fabbricazione americana o europea non solo distruggono edifici e altre infrastrutture civili, ma lasciano tracce come bombe a grappolo nei cuori e nelle menti di ogni palestinese, giovane e anziano che sia. Troppo spesso queste bombe cadono dai droni... Essi seguono gli operatori umanitari, le squadre di protezione civile, persino gli scolari. Il loro rumore è una guerra psicologica: significa che la morte non è mai lontana.
Pensa sia possibile qualche forma di cooperazione tra comuni gazawi e italiani per creare condizioni di un futuro sostenibile e dignitoso per i palestinesi della Striscia?
Assolutamente sì. Accogliamo con favore partnership che apportino competenze tecniche, risorse o solidarietà morale. Trattamento delle acque, gestione dei rifiuti, energia solare, recupero post-traumatico: c’è così tanto che possiamo ricostruire con gli alleati giusti. La solidarietà non dovrebbe fermarsi alle dichiarazioni, perché, per la popolazione di Gaza, il tempo stringe. La cooperazione tra Comuni e comunità può aiutarci a sognare di nuovo, a tenere viva la speranza in un domani senza morti da guerra.
Quale sogno porta nel cuore per Gaza e tutta l’antica terra di Abramo?
Sogno una Gaza dove i bambini vanno a scuola a piedi senza paura. Dove gli ingegneri costruiscono, non seppelliscono. Dove le persone vivono pienamente, non solo sopravvivono. Sogno una Palestina dove la giustizia scorre come l’acqua e la storia non ricorda il nostro dolore, ma la nostra resilienza. Questo è il sogno che trasmettiamo ai nostri figli, anche quando tutto il resto ci viene portato via.
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