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Racconti da Gaza: parla Abdallah Sharsharah, avvocato per i diritti umani



La crisi, a Gaza, ha raggiunto un punto di svolta allarmante e mortale. Una scelta tra morire di fame o essere colpiti. Questa è la decisione che molti palestinesi di Gaza devono prendere ogni giorno, per accaparrarsi qualche aiuto nei centri di raccolta o in caduta dal cielo. Per cercare di ascoltare storie dentro il conflitto, via WhatsApp siamo riusciti a raggiungere, a nord di Gaza City, Abdallah Sharsharah, 34 anni, sposato, un figlio, di professione avvocato per i diritti umani.
Innanzitutto come sta Abdallah?
Fisicamente sto bene, ma vivo in uno stato di esaurimento emotivo e psicologico.
Dove si trova?
Attualmente vivo nel quartiere di Al-Karama, nel nord di Gaza City. L’edificio in cui vivevo è stato parzialmente distrutto dai bombardamenti aerei, ma ora occupo la parte abitabile rimasta. L’area è classificata come zona attiva di operazioni militari israeliane in corso. Eppure, rimango qui non perché sia sicuro, ma perché semplicemente non ci sono alternative.
Ci può raccontare del suo lavoro?
Attualmente lavoro con l’associazione Ajyal per la creatività e lo sviluppo, l’organizzazione che gestisce l’Osservatorio palestinese per gli sfollati interni. Attraverso il mio lavoro quotidiano, sono costantemente esposto a scene strazianti, soprattutto quelle che riguardano i neonati che soffrono la carestia a causa della totale assenza di latte in polvere. Queste sono immagini che non si possono mai dimenticare. Vivere a Gaza oggi significa sopravvivere un giorno alla volta in mezzo alla devastazione totale e all’incertezza più totale. Tuttavia, mi aggrappo alla mia responsabilità di essere una voce per coloro a cui sono stati negati i loro diritti più elementari, alla vita e alla dignità.
Brevemente, ci può fare una fotografia della situazione degli sfollati interni?
Le condizioni umanitarie, per gli sfollati interni, hanno raggiunto livelli catastrofici. Oltre 1,9 milioni di persone, circa il 90% della popolazione di Gaza, sono state costrette a sfollare, molte più di una volta, spostandosi da un luogo pericoloso all’altro. Migliaia di persone vivono in tende, scuole distrutte o edifici parzialmente crollati, senza accesso ad acqua pulita, cibo, assistenza sanitaria o elettricità. Le famiglie sono distrutte e i bambini subiscono ripetuti traumi psicologici, in assenza di un ambiente sicuro. Secondo il Ministero della Salute, dal 7 ottobre 2023, più di 60 mila palestinesi sono stati uccisi, tra cui quasi 18 mila bambini e 9.500 donne, un’indicazione sconcertante della portata del disastro umanitario. La carestia è diffusa, con mezzo milione di persone che soffrono di fame acuta. Negli ospedali, quattro o cinque neonati condividono un’unica incubatrice, a causa della grave carenza di attrezzature.
Nella quotidianità cosa comporta il cambio continuo di residenza per i gazawi?
Nella società palestinese, una casa non è solo un rifugio, ma un simbolo di dignità e appartenenza. I ripetuti spostamenti hanno causato la perdita di proprietà, documenti e persino l’accesso ai servizi di base. I sistemi di registrazione civile sono al collasso. Le persone non possono più registrare nascite o decessi, né possono rinnovare o rilasciare documenti essenziali, come carte d’identità o certificati di nascita. Questo collasso istituzionale rappresenta non solo un fallimento amministrativo, ma la cancellazione deliberata dell’identità civile e della personalità giuridica delle persone.
L’assedio totale e la chiusura dei valichi da inizio marzo. La cacciata dell’Unrwa, agenzia Onu e l’arrivo di Ghf con gli aiuti razionati. I luoghi di distribuzione come bersagli umani. Lei, come avvocato, sotto il profilo dei diritti umani cosa ne pensa?
L’assedio di Gaza costituisce una forma di punizione collettiva vietata dall’articolo 33 della Quarta convenzione di Ginevra. È una palese violazione dei diritti alla vita, alla salute e alla dignità. L’espulsione dell’Unrwa, la principale agenzia delle Nazioni Unite responsabile dei rifugiati palestinesi, mina i meccanismi di protezione internazionale conservati nelle risoluzioni Onu. Prendere di mira i punti di distribuzione degli aiuti, o i civili che tentano di accedere al cibo, equivale a crimini di guerra, ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto di Roma. Ciò a cui stiamo assistendo non è solo un fallimento nella protezione dei civili, ma una politica sistematica di lento sterminio, che giustifica la responsabilità penale internazionale.
Secondo l’Onu, gli aiuti che Israele consente a Gaza sono ancora una “goccia nell’oceano”. È davvero così?
Questa non è solo una descrizione accurata, ma anche molto contenuta. Gaza ha bisogno di un minimo di 1.000 camion di aiuti al giorno, per soddisfare i bisogni umanitari di base. Attualmente, solo poche decine di camion sono autorizzati a entrare, in una frazione minima di tempo, e poi continuano le bombe. Questa è una vera e propria carestia forzata. Inoltre, l’instabile situazione di sicurezza mette a serio rischio sia i civili che gli operatori umanitari, rendendo l’assistenza umanitaria insufficiente e pericolosa. Questa è una strategia deliberata di fame. Mi chiedo se ci sia mai stato un periodo, nella storia, in cui i bambini siano stati fatti morire di fame per ottenere vantaggi militari o politici.
Sparatorie nel punto di consegna degli aiuti mentre i palestinesi affamati si affannano per procurarsi il cibo che ora arriva dal cielo. Sembrano scene di un film thriller di avventura invece è quello che accade tutti i giorni nella Striscia?
Tragicamente, sì. Ogni giorno, i civili vengono uccisi mentre cercano di recuperare cibo lanciato dal cielo o consegnato attraverso corridoi limitati. Dal 27 maggio 2025, almeno un migliaio di civili è stato ucciso, nel tentativo di procurarsi cibo. Questa è una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario e deve essere riconosciuta come un crimine sistematico contro popolazioni civili disarmate.
I Paesi che lanciano aiuti con i paracaduti dal cielo sono gli stessi che continuano a commerciare e a vendere armi con Israele. Cosa si dice tra la gente?
Il sentimento dominante a Gaza è di frustrazione e rabbia. Come può uno Stato lanciare aiuti alimentari con una mano e fornire le bombe che ci uccidono con l’altra? Questo non è solo contraddittorio, è un tradimento morale. Gli aiuti non possono assolvere la complicità nel conflitto. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono simbolici lanci di cibo sulle macerie delle nostre case, abbiamo bisogno che le uccisioni cessino.
La fame uccide ma anche la mancanza di acqua. Il cibo che arriva può essere utilizzato dalle famiglie o alla fine viene buttato perché non può essere cotto o non si riesce a conservarlo per il troppo caldo?
Nella maggior parte dei casi, no. A causa del divieto di carburante e della mancanza di elettricità e acqua pulita, le persone non sono in grado di cucinare o conservare il cibo. Gran parte degli aiuti immagazzinati al valico di Kerem Shalom, prima di poter entrare, si erano già deteriorati a causa delle cattive condizioni di conservazione, causando diffuse malattie di origine alimentare. In un solo mese, sono stati registrati 70.000 casi di infezioni gastrointestinali. Il cibo, invece di essere una fonte di sopravvivenza, in molti casi è diventato una fonte di malattia. Inoltre, il cibo in scatola che arriva dal cielo è pensato principalmente per adulti: pasta, tonno, humus.
Visto da Gaza i palestinesi hanno oggi altre opzioni se non quella di recarsi ai rischiosi punti di distribuzione di cibo gestiti dagli israeliani attraverso la Ghf?
Nessuna. Gaza è completamente isolata e il valico principale di Rafah (quello con l’Egitto, ndr) rimane pressoché chiuso. I centri di distribuzione umanitaria, pur essendo pericolosi, sono spesso gli unici posti in cui le persone possono accedere al cibo. Eppure, raggiungerli è pericoloso per la vita. Le forze israeliane hanno preso di mira queste zone, direttamente, o tramite cecchini e attacchi con i droni. Accedere al cibo è diventato un rischio mortale.
Venendo alla quotidianità, cosa fanno I gazawi durante il giorno?
L’economia è quasi completamente crollata. Le professioni tradizionali sono scomparse e le persone hanno inventato nuove forme di “lavoro” solo per sopravvivere. Alcuni ora riparano banconote strappate, altri usano la lacca per capelli, come gas improvvisato per cucinare e rudimentali forni di argilla sono diventati un nuovo “mestiere”. Quello che oggi a Gaza chiamiamo “lavoro” è, semplicemente, una lotta per la sopravvivenza in un sistema di annientamento imposto.
Cosa pensa delle campane e del battito delle pentole che hanno risuonato in diverse città italiane, lo scorso 27 luglio, per sensibilizzare le istituzioni politiche a non dimenticare la popolazione di Gaza?
Ci ha commosso profondamente. In un mondo che sembra indifferente, qualsiasi voce di autentica solidarietà tocca i nostri cuori stanchi. La campagna di suono delle campane è stata un potente gesto umanitario. Speriamo solo che si traduca in pressione politica, per porre fine all’assedio e alla violenza.
Cosa può fare l’opinione pubblica italiana per spezzare l’assedio sulla Striscia?
Molto. L’opinione pubblica può fare pressione sul Governo, affinché smetta di vendere armi a Israele, chiedere che vengano accertate le responsabilità per i crimini di guerra, chiedere un cessate il fuoco incondizionato e immediato e sostenere l’accesso umanitario senza restrizioni. Anche sostenere le organizzazioni indipendenti sul campo fa davvero la differenza. Ogni voce nelle piazze e nelle strade italiane può raggiungere i decisori politici. La voce della coscienza non può mai essere sottovalutata.
Quale sogno hai nel cuore per Gaza e per tutta l’antica terra di Abramo?
Sogno una Gaza dove le madri mandino i loro figli in scuole sicure, non in coda per gli aiuti umanitari. Sogno una patria costruita sulla giustizia, non su tregue temporanee. Sogno che la terra di Abramo torni ai suoi valori fondamentali: dignità, libertà e uguaglianza per tutti, senza disoccupazione o discriminazioni.