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L’inclusione scolastica a 50 anni dal Documento Falcucci

Sono passati cinquant’anni da quando, nel 1975, vide la luce il Documento che prese il nome dalla senatrice Franca Falcucci, presidente della Commissione che, su incarico del Governo, aveva il compito di svolgere un’indagine nazionale sui problemi degli alunni con disabilità. In esso veniva sancito il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e classi comuni per tutte le persone con menomazioni durature

Sono passati cinquant’anni da quando, nel 1975, vide la luce il Documento che prese il nome dalla senatrice Franca Falcucci, presidente della Commissione che, su incarico del Governo, aveva il compito di svolgere un’indagine nazionale sui problemi degli alunni con disabilità. In esso veniva sancito il diritto all’istruzione e all’educazione nelle sezioni e classi comuni per tutte le persone con menomazioni durature, giacché si precisava che “l’esercizio di tale diritto non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”.

Tale Documento ritenuto la Magna Charta dell’integrazione, nella forma di relazione conclusiva fu allegato alla circolare ministeriale n. 227 del 8 agosto 1975, dando avvio alle prime sperimentazioni di integrazione degli alunni handicappati (usiamo i termini di quell’epoca, ndr) nelle classi “normali”. Nel frattempo è cambiata la società, molte sfide sono state superate e anche il linguaggio definitorio come prevede il D. Lgs. n. 62 del 3 maggio 2024.

Inclusione è credere nel possibile

”Disabile”, “handicappato”, “invalido”, “inabile”, “diversamente abile”... Capita spesso che si utilizziamo nel linguaggio comune questi termini per definire una persona in condizione di difficoltà. Dire che sono parole che possono offendere, infastidire, mettere a disagio l’altro o gli altri che si sentono etichettati forse ci fa comprendere che ogni persona ha innanzitutto un nome, una storia, una dignità e che c’è bisogno di un cambiamento culturale che allontani la disabilità da una immagine negativa e pietistica, legata solo ed esclusivamente ad una condizione di fragilità.

Ne abbiamo parlato di recente con la pedagogista Rinalda Montani, docente di pedagogia e didattica speciale all’Università di Padova, già Presidente del Comitato Unicef di Padova su come le parole siano importanti in campo educativo. E questo in particolare quando parliamo delle persone con disabilità.

“Credo che nelle nostre scuole si faccia molto – ci dice la studiosa - ma si potrebbe fare molto di più”. Non solo con il togliere le etichette, ma anche con il progettare percorsi che promuovano l’istruzione per tutti. “Purtroppo – incalza – ci trova spesso dinanzi ad un’improvvisazione, mancanza di coordinamento e di risorse”. Facendo proprie le riflessioni di un papà di un figlio con pluri-dsisabilità, la professoressa ci sottolinea come “la disabilità sia un mistero, perché ogni studente che noi incontriamo a scuola ha una storia che ci provoca e che ci invita ad essere responsabili, ma ci chiede ciò che possiamo fare noi per loro. Se il cuore pulsante della pedagogia è l’educazione, non spetta all’insegnante decidere se un alunno con una certa diagnosi sia più o meno felice nella vita ma per quanto riguarda la competenza educativa è favorire che ciascuno nel proprio ambito professionale faccia la propria parte perché queste persone abbiano la miglior vita possibile”. In concreto “comporta – ci dice – operare sul possibile... Non illudere, non illudersi ma fare il possibile. Il possibile è il dovere professionale, sociale, politico di chi ha delle responsabilità verso le persone con disabilità e la loro istruzione. Responsabilità che riguarda ogni cittadino.”

“Dobbiamo essere consapevoli che questo approccio alla promozione della dignità umana di chi presenta durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali passa attraverso l’uso delle parole. Attuando la Convenzione del 2006 nel maggio scorso (ndr, D.Lgs 62 del 3 maggio 2024) è stato stabilito che le espressioni «persona handicappata», «portatore di handicap» (ndr, che si trova nella L. 104/92), «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, siano sostituite dalla locuzione «persona con disabilità». L’aggettivo «disabile» in italiano connota una condizione generica di non capacità, di subalternità, di incompletezza che colpisce la persona nel suo insieme e non mette la persona con la sua dignità al centro. Neanche la locuzione «diversamente abile» appare più in linea con i moderni paradigmi di approccio alla disabilità in quanto pone, in modo superfluo, l’accento sulla ‘diversità’, oggi considerata una condizione umana normale in quanto ciascuna persona è diversa dall’altra, a prescindere che vi sia o meno una disabilità e non, come più volte detto, sulla persona”.

Per rendere effettiva questa responsabilità “c’è bisogno di ricerca per creare servizi centralizzati in ambito sanitario, per dare effettività concreta da parte dei comuni al compito di cooperare al progetto di vita, per dare risposte effettive alle famiglie su quanto per legge gli spetta.”

“L’approccio inclusivo dipende non tanto dall’accettazione della maggioranza nei confronti di una minoranza che può essere quella etichettiamo con l’aggettivo ‘diverso’ ma viene dalla consapevolezza dei valori sanciti nella nostra Costituzione. La diversità quindi non è da considerarsi uno stigma ma una ricchezza che richiede dignità. La Convenzione è una bussola che ci invita ognuno per i propri compiti a seguire la strada tracciata”. E aggiunge come sia doveroso richiamare al valore pedagogico di Don Milani e dell’esperienza ancora attuale della scuola di Barbiana.

L’importanza dell’uso delle parole per la Montani diventa fondamentale perché rappresentano un modo di pensare e conseguentemente di agire. Le parole si intreccia con i ‘valori’. “Oggi sembra preponderante la declinazione in chiave economica, dell’utilità sociale e invece la prospettiva da seguire è quella dei diritti umani.” Nel ricordare il compianto collega Canevaro sottolinea come ciascuno di noi ha un nome prima di una diagnosi. “ La diagnosi è solo un punto di partenza, il resto è tutto da esplorare e da capire. Guardare il punto in cui sono e l’orizzonte al tempo stesso”.

E, infine, chiediamo quali siano a suo giudizio le parole chiave che hanno connettano l’educazione con l’inclusione. La professoressa ribadisce l’importanza di servizi centralizzati e uguali nel territorio nazionale, responsabilità virtuosa delle cosiddette 3 ‘R’ (rispetto, responsabilità e ricerca) che consentano ad ogni persona con disabilità di partecipare, le reti di relazioni per chi vive difficoltà fisiche e/o sensoriali. La parola che le ricomprende tutte ci dice è ‘fiducia’, “che si traduce nel progetto di vita per queste persone per dare un futuro di autonomie, di partecipazione e di conquiste”. Noi aggiungiamo anche la parola ‘rispetto’ che è stata scelta dalla Treccani come parola dell’anno 2024. Fiducia e rispetto di cui le famiglie e le istituzioni devono tenere conto per una buona educazione.

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