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Israele e Palestina: ripartire da Betlemme contro l’odio

Intervista: il cardinale Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, lancia un appello con le basi da cui ricominciare: “C’è bisogno di gesti concreti che portino fiducia”
25/12/2023

“Abbiamo bisogno di costruire percorsi di fiducia e di pace, specialmente adesso che siamo immersi in un mare di odio e di tensione che sta provocando disastri impressionanti” a Gaza, in Israele e nei Territori Palestinesi. E’ un Natale difficile, quello che attende i cristiani di Terra Santa, ma il messaggio che porta la nascita di Gesù è l’antidoto all’odio: “Non possiamo stare senza l’Altro. Altro che è venuto a noi. Credo che sia ciò di cui abbiamo tutti bisogno adesso”. Ne è convinto il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme che vede nelle parole “fiducia e pace” la strategia politica e sociale di uscita da questa guerra, scoppiata il 7 ottobre, dopo l’attacco terroristico di Hamas a Israele.

Nella Terza domenica di Avvento il Patriarca latino di Gerusalemme è solito visitare la parrocchia di Gaza per celebrarvi il Natale. Quest’anno ci troviamo a commentare qualcosa di terribile. Avrebbe mai immaginato una situazione del genere?

Nessuno, fino a due mesi fa, immaginava dove saremmo sprofondati in questa terra. Dobbiamo fare i conti con una tragedia immane, tra le peggiori, se non la peggiore, degli ultimi decenni dal punto di vista della violenza, del rancore, dell’odio.

Quanto sta avvenendo ci fa volgere lo sguardo più a Gaza che a Betlemme...

Certamente. Gaza assorbe tutte le nostre energie e non possiamo non parlare di Gaza, questo è evidente. Ma, al tempo stesso, non possiamo non allargare lo sguardo anche ai territori palestinesi e a Betlemme. Oggi, Betlemme è una città morta, sigillata. I check point sono quasi tutti chiusi. E’ morta, perché i pellegrini non ci sono e non c’è lavoro.

Che Natale sarà allora?

Sarà un Natale molto più semplice, più povero, modesto, meno eclatante. Come già annunciato, non sono previsti eventi pubblici. Natale sarà l’occasione per restare di più in famiglia, una festa da vivere nella sua dimensione più spirituale in stretta solidarietà con chi soffre. Davanti a tanto odio, non dobbiamo dimenticare la nascita di Gesù e per questo siamo chiamati a ripartire dall’evento di Betlemme. Guai a noi se non lo facessimo. La fede in Gesù ci deve rendere capaci di guardare oltre quello che stiamo vivendo, altrimenti saremmo schiacciati dai fatti.

Natale è anche un’invocazione di pace. In questo mare di odio c’è bisogno di ricostruire dalle macerie morali, spirituali e materiali: come?

C’è da riedificare innanzitutto la fiducia. E non sarà facile. Ci vorrà tanto tempo. Abbiamo bisogno di parole di fiducia e di volti nuovi, di nuove leadership politiche e religiose, capaci di aprire orizzonti e non di chiuderli. C’è bisogno di gesti concreti che nel territorio comincino a riportare un po’ di fiducia, che facciano vedere che un cambiamento è possibile, che si può cambiare pagina nelle relazioni umane, nel dialogo interreligioso e soprattutto nella leadership politica.

Ci sono operatori di pace tra israeliani e palestinesi? E poi, quali sono queste parole di fiducia cui fa riferimento?

Gli operatori di pace ci sono e in tutti gli ambiti. Ma come tutti gli operatori di pace non fanno chiasso. Il chiasso, adesso, lo producono le armi e la violenza. Naturalmente avremo bisogno di loro quando ci sarà da ricostruire. Serviranno persone dotate di visione e di coraggio. I costruttori di pace, dotati di ragionevolezza e di capacità di donare, sono persone coraggiose. Le parole? Sono giustizia, verità, riconciliazione, fiducia, diritto. Queste sono le basi da cui ripartire.

La soluzione “due popoli due Stati” potrebbe dare sostanza? La ritiene una soluzione ancora praticabile?

Credo che sia una soluzione tecnicamente non praticabile, ma è anche l’unica possibile. Ciò che questa guerra sta mostrando è che israeliani e palestinesi, in questo momento, non possono vivere insieme. Forse in futuro. Però resteranno qui e dovranno trovare dei modi creativi - non so quali - chiamiamoli anche “due popoli due Stati”, che diano a ciascuno i suoi spazi, la sua casa e la solidarietà. Ora siamo oppressi da questa situazione e il cambiamento richiederà tempi lunghi. Ci vorrà una nuova leadership, che prima o poi arriverà. Non bisogna mai disperare. La comunità internazionale dovrà aiutare, ma senza sostituirsi ai rispettivi leader.

Ogni Natale sempre meno cristiani restano in Terra Santa. L’esodo, sembra inarrestabile. Come invertire la tendenza?

L’esodo riguarda un po’ tutti, non solo i cristiani. Purtroppo il nostro piccolo numero rende l’emigrazione cristiana un fenomeno preoccupante. Per fronteggiarlo, come dicevo prima, servono gesti concreti e parole di fiducia che facciano capire ai nostri fedeli che restare è possibile.

Gesti concreti sono anche gli appelli di papa Francesco per la pace, per il cessate il fuoco, e le telefonate quotidiane alla parrocchia di Gaza, colpita lo scorso 16 dicembre, quando sono state uccise una madre e sua figlia.

Sono gesti molto importanti, perché in questo momento è evidente che non possiamo fare molto per cambiare questa situazione. Ricevere parole di vicinanza, sentire gesti di empatia e di solidarietà è importante come l’aria che respiriamo.

Qual è il suo auspicio per questo Natale?

Viviamo un tempo in cui ognuno è chiuso in se stesso, nel suo dolore e nella sua prospettiva. Invece il Natale ci dice che non possiamo stare senza l’Altro. Altro che è venuto a noi. Credo che sia ciò di cui abbiamo tutti bisogno adesso.

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