Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Quasi quasi vado a vivere in montagna

Vado a vivere in montagna. Di fronte al traffico caotico, ai trasporti pubblici affollati, alla mancanza di spazi verdi e di relax, se non chiudendosi in un centro benessere, qualcuno ci sta pensando seriamente. La città, poi, diventa rovente in estate, conosce lunghi periodi soffocanti e la primavera e l’autunno sono stagioni da “doccia scozzese”, dal caldo al freddo, e viceversa, in poche ore. Ci sono, poi, le esondazioni che ti distruggono magazzini e scantinati. La Pianura Padana è una “metromontagna” per l’intreccio tra aree urbane, pedemontane e montane: una forte urbanizzazione, che tende non tanto a espandersi quanto, piuttosto, a delocalizzarsi, o a essere “multilocale”. La definisce così il sociologo Andrea Membretti, nel volume “Migrazioni verticali. La montagna ci salverà”, dove analizza la mobilità interna nella “metromontagna padana”, conseguenza dei cambiamenti climatici, del riscaldamento globale e di quella che ormai è una sindrome dei cittadini padani: l’«ecoansia».
“Le migrazioni che riempiono di notizie emergenziali e allarmistiche i media del vecchio Continente sono quelle internazionali dal Sud del mondo, dirette verso la «fortezza Europa». Quelle interne, seppure costituiscano la grandissima parte degli spostamenti di persone sul pianeta, tendono, invece, a essere sottostimate e pochissimo considerate, anche nel caso italiano, sebbene l’Italia abbia vissuto una massiccia migrazione interna durante l’epoca industriale”. Membretti porta l’attenzione sugli spostamenti dal basso verso l’alto. Nelle passate emigrazioni si andava dalle montagne, le Alpi in primis, alle città di pianura, o verso le Americhe. Dalle “terre alte”, per gran parte del Novecento, non si è fatto altro che scendere, scivolare a valle, inurbarsi o attraversare gli oceani per stabilirsi altrove. A partire dal 1986, tre regioni fornirono, da sole, il 47 per cento dell’intero contingente migratorio: il Veneto (17,9), il Friuli Venezia Giulia (16,1) e il Piemonte (13,5).
“In anni recenti si è iniziato a considerare il fenomeno inverso, quello della risalita in quota, del ritorno alla montagna; il fenomeno, quindi, del neo-popolamento alpino, dei «nuovi montanari», del flusso, ancora ridotto, ma in crescita, che dalle grandi città porta nuovi abitanti nelle «terre alte», in modo stabile o intermittente”.
Un-Habitat, cioè il Programma delle Nazioni unite per gli insediamenti umani, afferma che l’esposizione al clima è sempre più a carico delle città. Oltre due miliardi di persone, che vivono nei centri urbani, potrebbero essere esposte a un aumento della temperatura di almeno 0,5°C entro il 2040. Così, il peggioramento delle condizioni di vita in pianura e in città determina questo nuovo flusso, non più orizzontale e transnazionale, ma verticale e interno, dalle aree urbane alla montagna. Le avvisaglie ci sono tutte: in maniera non massiccia, non frenetica, padovani, trevigiani, veneziani e vicentini si spostano verso le vicine montagne. Fuggono dalle città soffocate dal caldo e dalla scarsa qualità dell’aria, per la quale bambini e anziani, per primi, hanno crescenti problemi di salute. A Milano e a Torino, il fenomeno è evidentissimo.
Tutto è condizionato dalle risorse economiche, ma, se non mancano, i cittadini tentano di muoversi, in maniera periodica, o addirittura stabile e definitiva, verso la montagna. Grandi centri, come Crans-Montana, in Svizzera, o la nostra stessa Cortina, stanno diventando, da luoghi di residenza periodica a luoghi da quattro stagioni, supportati dalle comunicazioni digitali, che permettono di interagire con la città, con il proprio luogo di lavoro, senza esserci fisicamente. Sono fenomeni locali e anticipatori, anche perché queste località sono riservate solo a chi ha notevoli disponibilità economiche. È avvisaglia anche di un altro fenomeno, ovvero che questa migrazione verticale, se avverrà, non sarà democratica e aperta a tutti: probabilmente, sarà riservata a pochi, a chi può permetterselo.
Avvisaglia, anche, di un altro fenomeno: quello della sostenibilità di questa risalita in montagna. Sarà equilibrata, oppure assisteremo a un consumo di suolo barbaro e senza regole? La conclusione dello studio, da parte di Membretti, è pessimista. La montagna non ci salverà. “Perlomeno, non salverà di per sé la maggior parte di quanti, in luoghi come la pianura Padana, vanno incontro velocemente a un futuro climatico rovente, insalubre e inquinato”.
La montagna diventerebbe spazio salvifico solo per alcuni, luogo di una possibile “secessione climatica dei ricchi”. Se, al contrario, sarà “inserita in politiche demografiche e di mobilità residenziale metromontane, resa accessibile in modo equo e intermittente a un’ampia quota di persone (a partire da chi ne ha più bisogno, non da chi ha più risorse) e tutelata nella sua fragilità ecosistemica dall’eccessiva pressione antropica, potrà diventare luogo per sperimentare la multilocalità dell’abitare, la diffusione abitativa (dopo decenni di iperconcentrazione), l’interconnessione capillare città-aree interne, l’intreccio delle politiche migratorie e demografiche con quelle di sviluppo locale e di mitigazione e cura ambientale”.